A partire dai 14 anni e per i successivi trenta, Dick fu in analisi presso tutta una schiera di psichiatri, delle scuole di pensiero più disparate; inizialmente per curare la sua agorafobia, poi per tutta una serie di altri disturbi psicologici. Solitario, schivo e introspettivo, rivelò fin da bambino una certa problematicità nei rapporti umani. Odiava lo sport, soffriva di ansia e tachicardia, dubitava degli altri e di se stesso. Negli anni giovanili di Berkeley, la culla della controcultura e della contestazione, Dick si avvicinò al movimento studentesco e si oppose con una certa passione all’intervento militare in Corea.Per essersi rifiutato di ottemperare agli obblighi di leva fu costretto ad abbandonare i corsi. Per sopravvivere sperimentò allora tutta una serie di lavoretti: da disc-jockey esperto di musica classica in una radio di San Mateo a commesso in un negozio di dischi. Tuttavia non interruppe mai gli studi: appassionato di letteratura, storia e filosofia, s’impegnò a fondo da autodidatta frenetico, curioso ed entusiasta.Si sposò per la prima volta poco più che ventenne con la prima ragazza della sua vita, Janet Marlin: una sorta di ricompensa, narrano alcuni biografi, per aver ricevuto finalmente una prova di non essere omosessuale. Fondato che fosse o meno su queste premesse, il matrimonio non sarebbe durato a lungo.
Nel 1950 Dick divorziò e si risposò con Kleo Apostolides, una militante comunista di origini greche. Proprio in quegli anni, mentre Richard “Tricky Dick” Nixon diventava vicepresidente per Eisenhower, dopo essersi distinto come zelante membro della famigerata Commissione di repressione delle attività antiamericane, Philip K. Dick tentò la via della scrittura. Alla fantascienza si era avvicinato presto, ma prima di cominciare a scriverne era dovuto passare qualche anno: la folgorazione giunse dopo aver seguito un corso di Anthony Boucher, stimato autore, curatore e critico di rilievo attivo nel poliziesco e nella SF.
La fantascienza dell’epoca non si era ancora affrancata dai suoi connotati più ingenui, ammesso che ci sia riuscita oggi. In quegli anni Heinlein, Asimov e Clarke andavano a guadagnarsi il ruolo di stelle riconosciute nel firmamento della Golden Age e sarebbero presto emersi i nomi di Leiber, Bester, Sturgeon, Bradbury, Sheckley, Kornbluth e Pohl, Brown, Matheson, Vonnegut e Ballard, ma l’immagine del genere restava legata alla fama dei primi pulp. Appassionato lettore di Howard Phillips Lovecraft e Alfred E. van Vogt, Philip K. Dick preparò la sua personale risposta rinserrandosi in casa, ascoltando musica classica, leggendo con metodo e ossessione e scrivendo compulsivamente a macchina.
Si stima che tra il 1951 e il 1955 portò a termine quattro romanzi e sessantadue racconti: per reggere il ritmo, si rivolse all’ausilio chimico delle amfetamine. Ne assumeva in quantità massicce e se questa mossa lo ripagò all’inizio con un’enorme prolificità, avrebbe avuto alla lunga gravi conseguenze per la sua salute, contribuendo inoltre a minare la sua stabilità psichica. Eppure Dick considerò a lungo l’assunzione delle droghe come una risposta pragmatica ai problemi che lo affliggevano: senza, non sarebbe arrivato a scrivere le sessanta pagine al giorno che in certi periodi segnarono il ritmo della sua produzione.
Soprattutto nei primi anni Cinquanta, la produzione di storie brevi fu intensissima. Il primo racconto, l’ormai mitico “Ora tocca al wub”, lo vendette nel 1954 proprio alla rivista di cui Boucher era caporedattore, Planet Stories. Del periodo sono anche piccoli gioielli come “Impostore” e “Modello due” (1953), “Squadra riparazioni” e “La cosa-padre” (1954), “Autofac” e “Foster, sei morto!” (1955), “Rapporto di minoranza” (1956). Il primo romanzo gli fu pubblicato nel 1955: si trattava de Il disco di fiamma (conosciuto anche come Lotteria dello spazio, Solar Lottery). La sua produzione fu fin dagli esordi tematicamente variegata, come se Dick volesse dire la sua in tutti i diversi filoni del genere, parlando alle sue diverse anime, al punto che lo stesso Boucher giunse a definirlo “un abile trasformista”. La lettura di Camus, Kafka, Pound e Joyce ebbe in quegli anni un grande influsso sulla sua crescita letteraria: in tutte le opere di questo primo periodo è possibile riscontrare istanze tipiche dell’esistenzialismo, reinterpretate alla luce della personale sensibilità dickiana. Così, alle domande classiche sul senso della vita e il ruolo dell’uomo nel mondo, nella storia e nella società, Dick finì per aggiungere un altro importante interrogativo: “ma noi siamo davvero chi crediamo di essere?”. Questo tema diventerà uno dei pilastri portanti della sua opera, sviscerato sotto ogni possibile aspetto.
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