Lo stesso accade nei romanzi di Dick. La sovrapposizione dura fino allo scioglimento, quando lo stato del sistema collassa per effetto della riduzione, e davanti al lettore si presenta finalmente la risposta. In un parallelo metafisico che Dick forse avrebbe gradito, potremmo dire che è allora che “la verità viene rivelata. E agli occhi del lettore si presenta lo stesso scenario che attanaglia le visioni e gli incubi del piccolo Manfred Steiner, lo stesso panorama che si mostra ai “prigionieri” del Labirinto di morte (A Maze of Death, 1970), quasi un preludio alla successiva svolta mistica di Dick, la stessa landa di desolazione piegata al kipple, “un quadro di decadimento e assoluta, eterna distruzione”. La realtà vera sa essere ben peggiore di quella percepita dai nostri sensi, come c’insegna proprio Labirinto di morte, uno dei più cupi e angosciosi apologhi dickiani sulla fallacia delle percezioni, dove la simulazione di un mondo alieno, incomprensibile e soffocante, maschera la triste verità di un irrevocabile ergastolo gravitazionale.Nella sua breve ma intensissima carriera come scrittore di fantascienza, Philip K. Dick è riuscito a parlare di temi di pressante attualità e a inserirsi con autorevolezza in una discussione filosofica che procede da secoli, senza mai far mancare al lettore il gusto di una trama appassionante. I colpi di scena e l’azione, spesso ispirati da un senso dell’umorismo molto personale, irriverente se non proprio dissacratorio, celano una lucida discussione sul senso più profondo della condizione umana. I suoi androidi, i simulacri, i mutanti provvisti di facoltà straordinarie (telepatici, paracinetici, precognitivi), i subnormali che affollano le sue pagine, incarnano tutti una metafora, attori di una trasposizione teatrale della tragedia del vivere.Il discorso di Dick è stato trasversale alle più disparate discipline del pensiero. Parlando della natura della realtà attraverso la messa in discussione della nostra purezza percettiva, Dick approda a un discorso più ampio sulla possibilità del trascendente e del divino; discutendo la fallacia delle nostre percezioni, si è fatto testimone del fenomeno della tossicodipendenza, evolvendo le proprie posizioni rispetto alla droga dal liberale sperimentatore degli esordi alla definitiva, aspra disapprovazione delle conseguenze distruttive della sua assunzione e del suo possibile utilizzo come forma di controllo sociale; e qui ecco un nuovo salto, verso la disamina feroce del potere e dei suoi meccanismi di perpetuazione (l’iterazione infinita di modelli, imprigionati nella forma elettronica dei simulacri di capi di stato ormai morti), che conduce invariabilmente a sentenze di condanna senza appello, a prescindere dal segno o dal colore ideologico usato come specchio per le allodole. Ma il Dick più amato, almeno a giudicare da quell’autentico fenomeno di culto in cui si è trasformato Blade Runner negli anni (è bene ricordare che alla sua uscita il film si attirò critiche severe e si rivelò un fiasco commerciale), è quello che anticipa il dibattito etico di stringente attualità sui confini tra la vita biologica e la vita artificiale, sulle possibilità di discriminazione che sono concesse agli uomini per decidere dove finisca l’una e cominci l’altra, sui rapporti di emulazione ma anche sfruttamento tra i creatori e le creature.Non deve essere un caso se per lungo tempo Dick ha considerato proprio Do Androids Dream of Electric Sheep? come la sua opera più riuscita. 

Voci dal moratorium

Adesso che “dickiano” è divenuto sinonimo di paradossale, paranoico e ingannevole e di ogni miscela di questi tre elementi, quale che sia il dosaggio di ciascuno di essi, a metà strada tra “kafkiano” e “pirandelliano” e utilizzato talvolta come alternativa a entrambi, adesso insomma che Dick è entrato di fatto nel canone della letteratura occidentale, con l’inclusione di quattro dei suoi capolavori degli anni ‘60 (La svastica sul sole, Le tre stimmate di Palmer Eldritch, Cacciatore di androidi e Ubik) nella prestigiosa Library of America, assistiamo a un continuo tentativo di espropriazione del corpus della sua opera dall’alveo della fantascienza.