Chissà cosa direbbe Philip K. Dick del mondo in cui viviamo, che sembra incarnare in molti aspetti gli incubi peggiori codificati in tanti suoi romanzi e racconti. La nostra è un’epoca contraddittoria in cui convivono la spinta del cambiamento e il retaggio di forme di oscurantismo dure a morire, le implicazioni etiche determinate dal progresso tecnologico, l’esperienza quasi liturgica della realtà virtuale regalata alle massa dai social network e la sovrapposizione sempre più interstiziale di reale e artificiale. Non a caso Timothy Leary, teorico delle droghe psichedeliche, protagonista della controcultura americana dagli anni ’60 in poi e nei suoi ultimi anni di vita promotore di spicco del cyberpunk, lo definì “fanta-filosofo dell’era quantistica”. Forse Dick avrebbe espresso qualche riserva, lui che in vita pubblicò 35 romanzi e 120 racconti senza raggiungere mai la fatidica soglia delle centomila copie vendute per spiccare il vero balzo di notorietà, scrisse opere di aspirazione letteraria che non avrebbero visto la luce se non dopo la sua morte, sviluppò idee che avrebbero alimentato negli anni a seguire l’industria cinematografica americana e non solo. “Scrivere fantascienza è un atto di autodistruzione”, annotava Dick sui suoi taccuini. Una sentenza lapidaria, forse incomprensibile ai più oggi che il suo nome si rincorre sulla bocca dei lettori di mezzo mondo, così come di intellettuali e filosofi, talvolta con qualche remora ad associarlo al genere. E invece la sua opera si nutre dell’immaginario dei suoi predecessori e colleghi (oltre che di innumerevoli altre fonti, assimilate con vorace curiosità dalla sua cultura da autodidatta), collocandosi all’interno della storia della fantascienza e con altrettanto diritto in quella della letteratura americana del secondo ‘900, per la vastità della portata dell’influenza che ha saputo e che continua a esercitare. I suoi titoli sono diventati oggetto di culto, hanno ispirato pellicole di grande successo come Blade Runner (1982), Atto di forza (1990), Minority Report (2002), anticipando tematiche e inquietudini a cui il cinema continua ad attingere (da The Truman Show a Inception). Si ricordano diversi aneddoti sulla sua vita, inestricabilmente connessi alla carriera di scrittore di fantascienza. Per esempio che stentando a trovare la tranquillità economica, per un periodo Dick si adattò a cibarsi degli scarti di macellazione venduti come cibo per cani. Oppure che avesse preso l’abitudine a ritirarsi in una casupola senza riscaldamento né altri comfort e arredata solo con una scrivania e una macchina da scrivere per non concedersi alcuna distrazione durante la stesura dei suoi lavori. “Se vi pare che questo mondo sia brutto, dovreste vederne qualche altro” intitolò un suo saggio del 1977. Nel nostro, un androide con le fattezze di uno scrittore di fantascienza diventato di culto anche presso la più vasta platea dei lettori mainstream, ha perso la testa nel corso di un trasferimento aereo. Ma procediamo per gradi, partendo dal principio.
Il mondo che Dick creò
Il 16 dicembre 1928, a Chicago, Dorothy Kindred Dick diede alla luce due gemelli. I bambini nacquero prematuri di sei settimane e il 26 gennaio Jane morì. La colpa della sua morte fu attribuita alla madre, che più volte si rifiutò di cercare un adeguato aiuto medico, sottovalutando la gravità delle condizioni della neonata. Phil, invece, sopravvisse. La difficoltà nei rapporti familiari che Dick sperimentò per il resto della sua vita affonda forse le radici in questo dramma, sta di fatto che divenuto adulto avrebbe dipinto la madre come una donna fredda e una figura distante.
La piccola Jane fu sepolta in Colorado in una tomba preparata con due targhette. La prima recava la classica scritta: “Jane K. Dick, 1928-1929”. La seconda era la placca destinata a suo fratello e ancora incompleta: “Philip K. Dick, 1928- ”.
Quello spazio vuoto dopo il trattino, insieme all’idea colpevolizzante di essere sopravvissuto alla gemella, avrebbe ossessionato Dick per il resto della vita. A un certo punto, Dick sarebbe addirittura giunto a dichiarare di aver mantenuto sempre, per tutta la durata della sua esistenza, un legame spirituale con Jane.
Approdato in California nel 1930, dopo il divorzio dei genitori due anni più tardi si spostò a seguito della madre a Washington DC. Nel 1940 fece ritorno a Berkeley e da allora la sua vita si sarebbe snodata nel Golden State.
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