Negli anni della Belle Époque il sogno breve e illusorio di una civiltà nuova proiettata verso un progresso a beneficio di tutti, illuminato dalla scienza e dai suoi incredibili ritrovati, portò tanti scrittori ad avvicinarsi a un genere letterario che pochi anni dopo avrebbe trovato un nome: fantascienza. All’epoca si preferiva parlare di avventura fantastica, cioè una versione futuristica del tradizionale racconto di avventura stile Salgari. Capitava così che, invece che nella giungla o sui mari dei Caraibi, queste nuove storie si ambientassero su altri mondi. Tra i primi e più acclamati scrittori del genere c’era Edgar Rice Burroughs, che cento anni fa immaginava – viaggiando tra i canali di Percival Lowell – che Marte fosse un pianeta abitato ma in declino, dove le indomite razze indigene, immerse nel crepuscolo di un mondo rosso come il tramonto, lottavano per mantenere in vita la loro civiltà. Oggi, cento anni dopo, abbiamo scoperto che quei canali “artificiali” non sono altro che enormi canyon scavati dall’erosione dell’acqua del passato, cicatrici che solcano il volto di un mondo morto. Continuiamo a sperare di trovare, sotto le sabbie di Marte, tracce di vita aliena, anche se fossilizzata ed estremamente primitiva; ma di esotiche civiltà extraterrestri, nemmeno l’ombra.
Nonostante ciò, il Marte di John Carter, protagonista dell’omonimo ciclo di proto-fantascienza di Edgar Rice Burroughs, torna oggi in tutto lo splendore che può assicuragli il grande schermo per restituirci l’innocente ingenuità di quei vecchi sogni.
Edgar Rice Burroughs era un sognatore. Non gli piaceva la vita piccolo-borghese e convenzionale che sembrava riservargli il destino, dopo gli odiati studi classici da cui pure trasse una visione della realtà fortemente filtrata dall’epica greco-latina (all’epoca si studiava anche nelle scuole americane). Un’epidemia di influenza scoppiata a Chicago nel 1891 gli permise di lasciare la città a sedici anni, per trovare rifugio nel ranch dei suoi fratelli maggiori, in Idaho. Una terra di frontiera, una delle ultime negli Stati Uniti. Tra avventurieri, mandriani, cow-boy e loschi individui, Edgar Rice Burroughs trovò che quella vita era adatta a lui. Ma il vecchio west era al tramonto e del resto i genitori immaginavano per lui un destino ben diverso da quello del cow-boy. Riprese gli studi in una prestigiosa accademia del Massachussets, ma alla teoria Burroughs continuava a preferire la pratica. Il padre se ne rese conto e decise di trasferirlo all’Accademia Militare del Michigan, dove il giovane Edgar si trovò finalmente a suo agio, diplomandosi nel 1895. Ambiva a una carriera militare, lui figlio di un veterano dell’eroica Guerra Civile americana, ma a West Point, la più selettiva delle accademie militari, la sua domanda fu respinta. Pensò bene, allora, di iniziare la carriera dal grado più basso: entrò nell’esercito come soldato semplice.
Quando venne assegnato al Settimo Cavalleria, lo stesso battaglione comandato dal generale Custer all’epoca delle guerre contro i Pellerossa, pensò di aver realizzato il suo sogno. Ma di Apache non ce n’erano ormai più, quasi sterminati dalla brutale espansione dell’Uomo Bianco, e il lavoro del soldato semplice consisteva nell’imparare a scavare trincee. Un lavoro che non gli fece bene: al test per passare nella categoria degli ufficiali gli venne diagnosticata un’insufficienza cardiaca e la sua carriera si chiuse lì. Ma ne stava per iniziare un’altra, molto più esaltante.
Dopo aver provato a fare tutti i lavori possibili, dal cercatore d’oro al poliziotto ferroviario, dal venditore ambulante al bottegaio del drug-store, aprì una fabbrica di temperini sperando di imitare il successo del padre, che dopo la Guerra Civile aveva fatto fortuna mettendo su una fabbrica di batterie. Fallì anche in quel caso, e si trovò in una condizione disperata: padre di due figli, dopo aver sposato un’amica di infanzia, trovò unica consolazione nelle storie d’evasione che cominciavano a essere pubblicate sui pulp-magazines. Gli sembrò incredibile che molta di quella roba, davvero di pessima qualità, potesse essere venduta e riuscisse a far guadagnare anche grosse cifre ad autentici scribacchini. Non aveva mai scritto niente per il pubblico, eccetto alcune storielle che erano circolate in famiglia, ma decise che poteva fare senz’altro di meglio. Si mise alla macchina da scrivere e nel 1912 tirò fuori una novella dal titolo Dejah Torris, principessa marziana. Thomas Metcalf, direttore della rivista All-Story, la trovò molto buona e sganciò un assegno, per l’epoca, quasi stellare: 400 dollari. Fu pubblicata con il titolo A Princess of Mars e, per quanto il nome dell’autore fosse nascosto da uno pseudonimo – Noman Bean, che alludeva a “Normal Bean” (Uomo Qualunque) – la carriera di scrittore di Edgar Rice Burroughs era iniziata e non si sarebbe più fermata.
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