Appartengo alla generazione che per prima in Italia è stata investita dalla marea animata montata dal Sol Levante e abbattutasi sulle nostre coste psichiche a cavallo tra gli anni ‘70 e ‘80. Fin dalla loro apparizione sulle emittenti locali, gli anime hanno tracciato intorno a noi un panorama fantascientifico: in una certa misura, si può sostenere che i cartoni animati abbiano rappresentato per noi ciò che le riviste (di fumetti e di racconti) hanno rappresentato per le generazioni che hanno preceduto la nostra. Da allora, pur con tutti i limiti di una fruizione spesso non calibrata sui parametri più idonei – sia per via dell’assimilazione spesso indifferenziata, sia per gli adattamenti sanciti arbitrariamente dai distributori per compiacere un presunto target anagrafico – i cartoni animati giapponesi hanno rappresentato un’esperienza determinante nella formazione culturale di milioni di giovani spettatori. A parziale riscatto della loro dignità di prodotti culturali, negli ultimi anni hanno potuto godere di una rivalutazione critica e perfino di una cura quasi “esegetica”, grazie a esperienze come la programmazione della popolare Anime Night su MTV a partire dal 1999. Col tempo sono comparsi i primi studi critici sulla loro funzione e sulla loro valenza, internet ha permesso la divulgazione di dati e informazioni che un tempo erano appannaggio degli addetti ai lavori e dei più osservanti tra i fan (si pensi ai molteplici casi di censura e ancora agli adattamenti indiscriminati che finivano talvolta per snaturare il senso originario del prodotto) e gli anime hanno trovato una loro contestualizzazione anche nell’ambito della nostra cultura.
Mangascienza di Fabio Bartoli (classe 1980, laureato in Scienze della Comunicazione) s’inserisce in questo filone saggistico e svolge un’opera meritoria nei confronti del settore. In effetti il titolo potrebbe trarre in inganno e le ragioni della sua scelta vengono spiegate dall’autore nell’introduzione: i manga (ovvero i fumetti giapponesi) sono all’origine dei disegni animati (gli anime) e pur vertendo su questi ultimi il saggio è stato intitolato ai primi in quanto il termine che li definisce ha ormai raggiunto una larga diffusione anche in Occidente. Chi scrive ritiene inoltre che l’opportunità della sincrasi, con il suo rimando diretto alla fantascienza, abbia giocato un ruolo non secondario.
Il genere ha esercitato una profonda influenza sull’animazione giapponese, come testimonia la lunga tradizione di viaggi interstellari (chiaramente ispirati dalla space opera statunitense, si pensi all’adattamento di Capitan Futuro dai racconti di Edmond Hamilton o a una porzione consistente dell’opera di Leiji Matsumoto), l’evoluzione del catastrofismo (Conan, il ragazzo del futuro di Hayao Miyazaki deriva per esempio dal juvenile The Incredible Tide di Alexander Key) e la ripresa della figura del robot (trasformato quasi sempre in macchina da guerra, una sorta di carro armato antropomorfo di dimensioni gigantesche usato per contrastare la minaccia di qualche popolazione aliena). Proprio in quanto simbolo per eccellenza dell’animazione giapponese grazie a Go Nagai e ai suoi colleghi, il robot assume una rilevanza paradigmatica. Se in letteratura infatti l’automa rappresenta già a inizio secolo un pretesto per mettere filosoficamente (per l’ennesima volta) l’uomo di fronte al suo doppio oppure socialmente per trasfigurare il conflitto di classe e i rischi insiti nelle società industriali, nei cartoni animati nipponici prevale un impiego della macchina simbiotico con l’uomo, che viene estremizzato fino all’ibridazione tra componenti artificiali e corpo umano nel caso dei cyborg (si pensi a Kyashan, il ragazzo androide di Tatsuo Yoshida o al più recente Project ARMS, oppure al ribaltamento di prospettiva presentato da Neon Genesis Evangelion di Hideaki Anno, in cui sono i mecha a mutuare la matrice organica dai loro piloti). Gli autori di manga e anime recuperano in un certo senso la valenza originaria del robot e la fanno propria, piegandola alle esigenze di un discorso fortemente legato alla cultura giapponese sulle relazioni tra uomo, tecnologia ed ecosistema. Questo discorso affonda le radici nella storia del paese, l’unico a sperimentare l’onda di fuoco delle esplosioni atomiche nei tragici giorni che posero fine alla Seconda guerra mondiale, e Fabio Bartoli pone giustamente l’accento sulle corrispondenze tra il vissuto della nazione e le rappresentazioni immaginifiche partorite dalla fantasia dei mangaka.
Il libro si divide idealmente in due parti. La prima si compone dell’analisi critica del prodotto culturale manga/anime, prendendo in esame una cinquantina di serie realizzate nel periodo compreso tra il 1963 (data di uscita di Astroboy, la seconda serie animata a essere trasmessa sugli schermi del Sol Levante, la prima in assoluto di impostazione fantascientifica) e il 2003 (l’anno in cui il cartone si svolgeva, nonché data del suo ultimo rifacimento). E una seconda comprende la lunga appendice dedicata a una panoramica delle principali serie trattate, condensate in schede sintetiche di agile consultazione.
La disamina di Bartoli si concentra dichiaratamente sul triplice nucleo tematico rappresentato da mitologia greca, scienza moderna e prodotto culturale giapponese. Partendo dal mito di Prometeo, che rubò intelligenza e memoria dallo scrigno di Atena e l’arte del fuoco dalle fucine di Efesto per farne dono agli uomini, dimenticati dal fratello Epimeteo nella distribuzione delle facoltà alle schiere dei viventi, l’autore definisce il ruolo della scienza e della tecnologia ricorrendo al concetto di «iperestensione culturale», prendendolo in prestito dalla sociobiologia. E indaga la funzione dei cartoni animati quali «antidoto culturale» contro i rischi connessi a un uso scriteriato e incosciente dei frutti del progresso. La sua ricostruzione delle coordinate storiche in cui l’animazione nipponica è nata e da cui si è sviluppata è minuziosa e documentata, come dimostra l’ampio repertorio di note e la ricca bibliografia di riferimento.
Dopo un inquadramento storico dell’Arcipelago, la parte più corposa dell’indagine è occupata da un esame delle serie animate in relazione ai rapporti della tecnologia con la natura, la tradizione giapponese e il corpo umano, spingendosi in quest’ultimo caso a mettere in luce le implicazioni bioetiche e gli scorci postumani anticipati da un numero significativo di serie animate. Funzionale a questa analisi è l’impostazione multidisciplinare scelta da Bartoli, che si richiama di frequente agli studi sulla società di Zygmunt Bauman e Herbert Marcuse e si lascia guidare dal sociobiologo Edward O. Wilson. A seguire, un capitolo è dedicato alla messa a punto delle riflessioni emerse nelle pagine precedenti, un ideale secondo giro di danze svolto seguendo percorsi tematici e non più storici.
Il libro risente a tratti di un approccio eccessivamente accademico, forse retaggio dell’essere una parziale rielaborazione della tesi di laurea elaborata dall’autore nell’ambito del corso di Scienze della Comunicazione (Università di Roma “La Sapienza”, anno accademico 2005-06). A giudizio di chi scrive risulta poi non del tutto giustificata l’assenza di alcuni prodotti-chiave legati alla stagione della cosiddetta Nuova Animazione Seriale ma non solo (il precursore steampunk Il Mistero della Pietra Azzurra manca del tutto, l’esperienza multimediale del franchise Ghost in the Shell viene citata solo en passant). D’altro canto, la cura editoriale riposta nel progetto balza all’occhio fin dalla copertina originale e pertinente e si conferma – malgrado qualche refuso – nell’impaginazione, che valorizza le citazioni, separa funzionalmente nelle schede la parte dedicata alla trama dalle considerazioni critiche dell’autore, e completa il testo con un puntuale corredo iconografico, la cui ricchezza compensa in parte l’assenza del colore.
Ritengo che quest’opera di Fabio Bartoli possa soddisfare tanto gli appassionati quanto i fruitori occasionali o i curiosi completamente a digiuno di animazione giapponese, offrendo ai primi le necessarie coordinate storiche per valorizzare la produzione animata nipponica e agli altri una mappa di titoli e percorsi tematici utile per intraprendere l’esplorazione di questo vasto arcipelago dell’immaginario. Ma forse i lettori che beneficeranno maggiormente di Mangascienza si trovano tra quanti sono stati appassionati di cartoni animati solo per un periodo della loro vita: leggendo questo libro, loro sì che potranno salire su una macchina del tempo per tornare indietro al futuro della loro infanzia/adolescenza. E per causa sua si scopriranno forse a riprendere un vizio che credevano di aver smesso.
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