Pubblicare una rivista amatoriale nel 1930 era semplice, ma non semplicissimo.
Al livello più basso, la rivista a copie carbone non richiedeva altro che la competenza necessaria a battere a macchina. Più fogli riuscivi a inserire nella macchina per scrivere, ognuno preceduto da un foglio di carta carbone, più copie della tua rivista riuscivi a fare. Il limite pratico era di sette o otto copie, e lo si poteva raggiungere solo con la carta velina più sottile e con le macchine per scrivere con i caratteri più nitidi, dove per caratteri intendo la parte che colpisce il nastro inchiostrato.
Anche i dissidenti dell’Unione Sovietica in quegli anni pubblicavano il loro tipo di riviste amatoriali, solo che invece di criticare le riviste di fantascienza criticavano il governo, rischiando, se presi sul fatto, la prigione o peggio. Gli esempi di queste fanzine che ho visto erano fatte con le copie carbone, anche perché era l’unico strumento che avevano a disposizione, ed erano quasi illeggibili. Ma venivano fatte girare finché non si consumavano, o finché i loro possessori non venivano catturati.
Non c’era poi molta soddisfazione a pubblicare una fazine con copie carbone. Dopo averne fatto una copia per te stesso e per un paio dei tuoi amici non ne restavano più da mandare a Forrest J Ackerman, Don Wollheim, Jack Darrow o altri Grossi Nomi del Fandom con i quali avresti voluto fare scambio per ricevere le loro, quindi i fan o i club con qualche disponibilità economica salivano al livello superiore, il poligrafo.
A parte gli appassionati di fantascienza, un’altra categoria di persone che usava il poligrafo erano i cuochi di piccoli ristoranti, spesso italiani, che lo usavano per annunciare i piatti del giorno.
Il poligrafo era un cassetto della dimensione di un foglio di carta riempito con gelatina, di solito viola. In realtà non era un gran passo avanti rispetto alle copie carbone, perché non si otteneva più di una dozzina di copie leggibili per ogni pagina.
Questa tecnologia richiedeva che si battesse la pagina con la macchina per scrivere su un foglio trattato in modo particolare (che veniva chiamato dai tecnici del poligrafo “maschera”, anche se non lo era affatto). Per preparare l’operazione di stampa per prima cosa bisognava pulire lo strato di gelatina dall’inchiostro rimasto dalla stampa precedente, quindi lasciarlo asciugare. A questo punto con molta attenzione bisognava distendere la maschera sulla superficie della gelatina e premere leggermente per essere sicuri che venisse bene a contatto.
A questo punto bisognava togliere il foglio maschera e stendere un foglio bianco al suo posto. Il foglio poi andava appeso ad asciugare, mentre si ripeteva l’operazione con foglio di carta successivo, e così via finché la stampa non era troppo impastata per essere leggibile.
Se si volevano fare altre copie bisognava ribattere la pagina su una nuova maschera e ripetere tutto da capo, finché c’era carta o finché non si avevano abbastanza copie. Era facile riconoscere un utente di poligrafo, perché aveva le dita viola.
Il procedimento veniva ripetuto per ogni pagina con numeri dispari, sempre appendendo tutto ad asciugare. Una volta terminato e una volta che le pagine erano asciutte, si poteva cominciare a fare le pagine con i numeri pari, stampandole sul retro di quelle stampate in precedenze.
Terminato tutto il lavoro, venivano raccolte tutte le pagine finalmente asciutte, che ora erano pronte per essere rilegate. Procedimento di cui parleremo più avanti, dopo aver descritto altri metodi di stampa, anche perché più o meno tutti condividevano le stesse tecniche di rilegatura.
La tecnologia di stampa più diffusa, usata probabilmente da più fanzinari di tutti gli altri messi assieme, era il ciclostile.
Il ciclostile era un macchinario brevettato e prodotto in serie. Lo usava per esempio l’Esercito durante la guerra per distribuire gli ordini. (Nell’esercito si diceva “incidere gli ordini”, quando in realtà venivano stampati, forse proprio perché battere a macchina una maschera per ciclostile veniva detto “incidere”). Era usato per gli usi più diversi e certamente i samizdat russi lo avrebbero preferito agli altri metodi, se solo lo avessero avuto a disposizione. In Unione Sovietica i ciclostile avevano un contatore delle pagine incorporato, e se risultavano stampate più pagine del dovuto il responsabile vinceva un viaggio ai campi di lavoro.
La macchina consisteva di un largo tamburo con una manovella. Girando la manovella girava il tamburo. Quanto era largo il tamburo? Diciamo largo abbastanza per avvolgervi attorno una maschera, o matrice, per ciclostile. Quanto era grande una matrice di ciclostile? All’incirca come un foglio di carta formato “legale” (21,6 × 35,6 cm) più un margine per attaccarlo al tamburo. La matrice, di norma di colore blu, era fatta di una sostanza simile a cera soffice e flessibile attaccata su un foglio spesso più o meno come la copertina di una rivista. Veniva usato inserendolo con molta attenzione nella macchina per scrivere; veniva tolto il nastro in modo che i martelletti colpissero direttamente la matrice incidendo la propria forma nella cera. Se si voleva fare gli artisti si potevano disegnare titoli o capolettera in caratteri grandi, o addirittura disegni veri e propri, incidendo la cera con uno “stilo”, una sorta di penna senza inchiostro.
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