Nello spazio nessuno può sentirti urlare, così recitava uno spot di un famoso film di fantascienza: il primo Alien di Ridley Scott (1979). Il vuoto ora avvolge la sonda Voyager 1: l’eliosfera, il guscio che lo ha avvolto per tutta la sua esistenza, è alle sue spalle, e ora sta arrivando dove nessun uomo, era mai giunto nei tredici miliardi di anni dal Big Bang. Ci ha trasmesso informazioni che confermano che i soffi del "vento solare", degli elettroni e protoni emessi dal Sole, non lo raggiungono più.
Non sappiamo se rida o urli, ma possiamo provare a metterci nei suoi panni, nella sua scatola d’acciaio: nessun rumore, sensazione di freddo, ovunque velluto nero puntellato di stelle brillanti; alle spalle un sistema solare conosciuto che sta svanendo come neve al sole; di fronte l’universo ignoto. Velocità: tredici chilometri al secondo, quarantaseimila chilometri all'ora ("Io sono velocità", affermerebbe Saetta McQueen di Cars). La certezza che dopo pochi istanti anche la flebile voce dal pianeta Terra, il pianeta “madre”, scomparirà assorbito dalle distanze cosmiche. Solitudine, paura, il suo gemello, Voyager 2, lontano, mandato in un’altra missione con traiettorie che non si incroceranno mai. Tanta solitudine, ma una gran voglia di scoprire cose nuove e forse anche la possibilità di portare un messaggio a una civiltà aliena. La possibilità di diventare un UFO in terra straniera, un portavoce di un’antica civiltà (e speriamo non estinta nel momento del contatto in un futuro remoto). La nostra.
Settecento chili di peso, circa trentaquattro anni di età e una missione da eseguire. Come computer di bordo un “preistorico” processore con memoria da sessantottomila byte: ricordi di gioventù quando i personal computer erano il Commodore Pet, commercializzato proprio nel 1977 o, nello stesso anno, l'Apple II, l'antenato della dinastia degli Apple Macintosh. Eppure ci ha regalato delle immagini incredibili.
Viaggerà nel vuoto cosmico anche dopo che il suo cuore nucleare al plutonio avrà smesso di battere nel 2020 e ogni possibile, flebile, collegamento con la Terra cesserà per sempre.
Nel suo disco d’oro ci sono le prime battute dei Concerti brandeburghesi di Bach, centoquindici suoni della Terra, vento, mare, uccelli, balene, messaggi degli uomini politici del momento, i saluti di terrestri in cinquantacinque lingue diverse, grafici con i parametri che rappresentano il sistema solare, simboli di molecole, ecc. Insomma, una specie di capsula del tempo che porta a spasso i nostri anni ’70.
Forse non sapremo mai se riuscirà a eseguire la sua ultima missione, se verrà individuato e raccolto da qualcuno laggiù nel cosmo, oppure se ritornerà “più intelligente”, come nel primo film di Star Trek del 1979. Solo di una cosa possiamo essere sicuri: lui esiste ed è il nostro viaggiatore delle stelle. Il nostro robot vagabondo galattico.
Io, Voyager.
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