Sentiva più che mai di doverlo fare.
Si sforzò di dominare il tremore che minacciava di prenderlo alle mani. Doveva, perché la sua intera esistenza - ventitré anni - convergeva lì, in quel punto e in quel momento, sul selciato prospiciente il Palazzo di Vetro.
Mentalmente acconsentì per un'ultima volta, per infondersi ulteriore coraggio.
Sì, sono pronto.
La sua mano avanzò con lentezza. Si mosse il busto. Achille Cordeiro il brasiliano si agitò sulla sedia a rotelle, mentre le dita cercavano il tubo di plastica arrotolato sotto il sedile. Anche le sue gambe, due inutili fuscelli, ebbero una momentanea parvenza di vita.
Su quel lembo di Manhattan era faticoso districarsi nella folla che premeva da ogni lato, sommersi in un vociare e urlare che si sarebbe smorzato solo a tarda sera. Intorno al grattacielo di cristallo più di diecimila persone schiumavano contro i cordoni delle forze dell'ordine: gente d’ogni colore di pelle, di ogni ideologia e condizione sociale. Achille aveva dovuto opporre continua resistenza, a forza di braccia, per non venire sospinto verso l'East River e magari travolto. Aveva lottato duramente per restare piazzato ore e ore lì, su quello striminzito rettangolo di selciato.
Stanno per venire fuori.
Lontano dalle prime file, stretto dai corpi e impacciato sulla sedia, non riusciva a vedere l'ingresso. Però, in un modo tutto suo e che gli altri non potevano immaginare, Achille era in grado di sentire. Sì, ora percepiva ciò che stava per accadere: i segretari e gli addetti diplomatici si accingevano a lasciare il Palazzo, precedendo i Capi di Stato in una fitta schiera protocollare. La riunione-fiume del Consiglio di Sicurezza dell’Onu doveva essersi appena conclusa.
Sopra la marea di teste umane, nell'umidità dell'aria newyorkese, ondeggiavano striscioni e cartelli con scritte multicolori e perentorie, fitte di punti esclamativi, con immagini di armi, bambini scheletrici, funghi atomici, maschere antigas, carri armati, stelle-e-strisce con la svastica, foto del Che, teschi con tibie incrociate, star del rock, bandiere d’ogni colore, o simboli che altrove sarebbero apparsi eccessivi. C’erano fazioni che inneggiavano a qualcuno o qualcosa, e altre mille che protestavano contro qualcuno o qualcos’altro. Da giorni stampa e tv bombardavano l'opinione pubblica.
La situazione mondiale mostrava segni di ulteriore deterioramento. I leader ruttavano torrenti di promesse, uomini di fede laica o religiosa invocavano pace distensione e benessere, la gente riceveva litanie di assicurazioni; eppure in Medio Oriente, Africa, Sudamerica, in cento frontiere, il sangue continuava a scorrere. La fame era uno spettro perpetuo per intere popolazioni, si generavano soprusi, massacri, torture sempre più elaborate. Questo era il mondo che tutti conoscevano e che molti fingevano di non conoscere... Ma nessuno viveva quei drammi con la stessa dolorosa intensità di Achille Cordeiro.
Ci sono. Escono in questo momento.
Nel suo personale modo segreto, il brasiliano captò il movimento dei Capi di Stato che si affacciavano sulla soglia del Palazzo. Di colpo la folla sembrò muggire in un unico urlo e prese a ondeggiare ritmicamente. Erano state varate eccezionali misure di sicurezza, ma le forze dell’ordine riuscivano appena a contenere la pressione della moltitudine che si faceva avanti, sgomitava, tumultuava.
Svito il tappo!
Un cielo di cobalto si apriva su di lui, sulla folla, oltre gli elicotteri che incrociavano incessantemente a bassa quota lungo lo Hudson, la città e l'oceano. Il profumo della primavera inoltrata giungeva da nord-est. Odori e colori naturali che potevano distrarre, decontestualizzare, fare apparire lontana e astratta ogni preoccupazione.
Il presidente Jeffrey Hubert Wilkinson si accinse a uscire dal Palazzo. "È fatta" pensò. Erano state giornate estremamente intense. Un'ombra oscurò il suo viso aperto. Forse avrebbe potuto far pesare maggiormente le sue motivazioni, che del resto erano quelle non solo degli Usa ma di tutta la civiltà occidentale. Lui era di Jackson, Mississippi, e da uomo degli stati del Sud si riteneva persona pragmatica, dotata di ciò che egli stesso definiva “sano buonsenso”. Credeva di saper cogliere le contraddizioni della società moderna, ed era certo che nei tre anni del suo mandato avesse saputo agire nel giusto modo e nelle tradizioni culturali tipicamente americane. Ma... durante questo summit era emerso un fatto sgradevole. Il segretario McKlaas - caso paradossale - aveva male interpretato alcune sfumature delle istruzioni impartitegli per lettera pochi giorni addietro. Come risultato immediato, si era registrata una recrudescenza della guerriglia in una delle zone più calde dell'Africa. Eppure le forze al potere e i rivoltosi avevano steso, mesi prima, precisi trattati per la cessazione delle ostilità. Wilkinson rischiava ora di alienarsi la simpatia di molti paesi e gruppi che avevano sostenuto la sua candidatura. Prima fra tutte quella dei boss delle grandi industrie statunitensi che, in base agli accordi di tregua già ratificati, avevano investito capitali a lungo termine nel Continente Nero per la ricostruzione post-bellica. La produzione industriale avrebbe segnato il passo... Si parlava di un'imboscata, di numerosi morti al confine fra le zone governative africane e quelle controllate dagli irregolari. Il risultato era che la ripresa degli scontri armati aveva avuto una vasta risonanza. Nel consesso delle nazioni, l'operato di Wilkinson ne era uscito condizionato.
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