— Neanche cagare. Peggio dei nazisti. — E tu sei comunista. — E allora? Siamo in guerra, no? Il vecchietto scosse la testa.

— Voi non capite un accidente. Se volessero potrebbero buttare giù il napalm anche qui, o innaffiarvi con l’aviazione. E invece si spaccano la schiena a venirvi a cercare su per i monti.

— Sono stupidi.

— Cristo, non hanno voglia di farvi fuori come formiche.

— E questo cos’è? Un albergo?

— La guerra è sempre la guerra — disse la guardia. — Certe cose le devono fare anche loro.

— Fottiti.

— Devo andare — fece l’altro. — Vuoi qualcosa?

— No.

Poi ci ripensò. C’era qualcosa.

— Aspetta. Se puoi, dovresti portarmi un po’ di carta e una penna. Voglio scrivere delle lettere.

— Non so se si può.

— Chiedilo. E poi non pretendo mica che le facciano partire. Voglio solo scriverle.

— Va bene. Chiederò.

Uscì fuori senza nemmeno salutarlo e richiuse i catenacci. Poi lui mangiò quella schifosa zuppa, orinò e defecò in un angolo, quasi su dove aveva vomitato, e pensò che entro pochi giorni l’odore l’avrebbe fatto soffocare. Tanto non c’era scampo.

Più tardi si ritrovò con la penna in mano e la carta sul letto. Nel portargli quella roba, la guardia gli aveva detto che era una concessione del tutto speciale quella che gli stavano facendo, e pertanto doveva sentirsi riconoscente.

Sdraiato sul letto, sotto la luce rachitica d’una minuscola lampadina che pendeva dal soffitto, decise di scrivere subito a Maria.

“Cara Maria” cominciò, “forse non lo sai ancora ma ci hanno presi. L’altra notte, mentre scendevamo giù verso Bobbio. Probabilmente qualcuno ha parlato: sapevano già dove saremmo passati, ed erano in tanti che non ci siamo nemmeno messi a sparare. Ne hanno fatti fuori due o tre dei nostri a scopo dimostrativo, ma non avevano voglia di ucciderci. Questo devo concederglielo.

Poi ci hanno portati tutti qui, ma non so dove ci troviamo perché ci hanno fatti viaggiare per una notte intera e per parte del mattino su delle camionette tutte chiuse. Potremmo anche essere arrivati a Roma, o più in giù. Oggi hanno cominciato ad interrogarmi. Non ho detto niente. Tuttavia credo che sappiano già tutto, e forse hanno solo voglia di farci soffrire un po’ prima di ucciderci. Comunque non dubito che ci uccideranno, non avrebbe senso salvarci la vita, dal loro punto di vista.

La mia cella è una stanza molto miserabile, e non posso nemmeno servirmi di un gabinetto. Devo fare tutto qui. Mi dà nausea vedere tutti gli italiani che si sono messi con loro. Capirei se la situazione fosse diversa; ma il fatto che gli americani abbiano invaso l’Italia per andare contro la Cina, che ci abbiano costretti a nutrirli, che abbiano messo fuori legge il comunismo, questo è davvero troppo.

Ti ricordi quando sono partito? Tu non volevi che io me ne andassi, e mi pregavi di piegare la testa e di accettarli; ma se lo avessi fatto avrei perso tutta la dignità, tutto il rispetto che devo a me stesso e agli altri.

In compenso ho perso tutto il resto. Due anni, Maria, due anni che non ti vedo; e quando qualcuno dei nostri è tornato a casa per rivedere la moglie un mucchio di volte l’ha trovata già con un altro uomo. Io vorrei solo sapere che tu non lo hai fatto, che mi ricordi ancora. Non sarebbe proprio giusto trattarmi a questo modo.

E i nostri figli come stanno? Piero cresce, spero; e ormai gli sarebbe dovuto passare quel disturbo al fegato che ti preoccupava tanto. E Clara? È sempre la solita ragazzina irritante che gira di qua e di là a ficcare il naso dappertutto? Cristo, darei l’anima per sapere qualcosa di voi.” 

Il giorno dopo lo venne a interrogare un ufficiale dell’esercito americano. Si accomodò sul letto vicino a lui, fingendo di ignorare il cumulo di rifiuti che giacevano nell’angolo e l’odore che emanavano.

— Come va? — Gli chiese.

— Male. Ho la febbre.

— Passerà, passerà. Nessuno è mai morto di febbre qui.

— Ci credo. Non ce n’è bisogno.

L’americano si girò e lo fissò in volto.

— Senta un po’ — disse — voi avete tutti una maledetta parlantina e dovreste imparare a smetterla. Forse non vi ricordate mai che siete solo dei prigionieri.

— Non ho niente da perdere. Posso dire quello che voglio.

— Se lei collaborasse potremmo anche lasciarla andare.

— Non collaborerò. E poi non mi fido di voi.

— Fa male. Comunque...

Si alzò in piedi e tirò fuori un pacchetto di sigarette dal taschino dell’uniforme. Gliele tese.

— Fuma?

— Grazie.

Prese una sigaretta e se la fece accendere. Tirò la prima boccata con molta lentezza, per gustare tutto il sapore; e quando il fumo gli entrò nei polmoni cominciò a tossire convulsamente, ma non avrebbe rinunciato a quel momento per niente al mondo. Amava le sigarette e il loro gusto amaro, e da qualche giorno non ne aveva più nemmeno una,

— La spenga — disse l’americano. — Le fa male.

— La prego. È solo un po’ di tosse.

— La spenga! — urlò l’altro. — Impari ad ubbidire.

Gettò la sigaretta a terra, e l’americano la pestò col tacco, continuò a pestarla fino a che non l’ebbe ridotta ad un ammasso informe di tabacco sporco.

— Così non la potrà raccogliere — disse. — Non vogliamo che lei muoia per una sigaretta. — Lui continuò a fumare.

Avrebbe voluto saltargli in faccia e dargli tanti pugni da farlo urlare, ma era troppo debole anche per alzarsi dalla brandina.

— Allora — riprese l’altro dopo un po’ — vuole dirmi il suo nome di combattimento?’

— Tigre Rossa.

— È molto testardo ma questo non l’aiuterà. Sappiamo che lei è Giovanni Alfonsi, ex professore di logica all’università di Milano. Sappiamo anche che ruolo ha nella guerriglia. Da lei vogliamo solo una conferma.

— Se sapete già tutto — disse non vedo cosa aspettate a uccidermi. Ammesso che sia vero.

— Troppo comodo. Lei non può cavarsela così, dopo tutto quello che ha fatto. Non le pare?

— Non so. Davvero non so.

— All’epoca dell’università — fece l’americano — lei era un marx-leninista. Ha cambiato idea?

— Le ideologie non importano più — rispose. — Allo stato attuale delle cose l’elemento più importante è l’azione. Quando avremo vinto ci sarà tempo di provvedere a una risistemazione ideologica. Comunque, se le interessa, io sono ancora un marx-leninista.

— Quel pazzo di Mao — fece l’americano con disprezzo. — Sta portando il mondo alla rovina, E voi siete dalla sua parte.

— Tutti portiamo il mondo alla rovina, mein kamerade. Anche voi.

— La smetta — urlò l’americano. — Io non sono un nazista!

— No?