L’obiettivo è ambizioso: confezionare un film che convinca pubblico e critica, che accontenti lo spettatore desideroso di godersi un film di pura suspense e i più sofisticati appassionati di fantascienza ‘cerebrale’. Per questo, al tradizionale concetto di action-movie spericolato con tanto di terrorista da abbattere entro poco tempo (sullo stile del memorabile Speed con Kenu Reeves, quando i terroristi erano ancora americani), sceneggiatori e produttori hanno affiancato un interessante background fanta-scientifico. Background condiviso dallo stesso regista, che avrebbe voluto approfondirlo maggiormente, ma è rimasto limitato dai vincoli hollywoodiani. Ciò nonostante, Source Code propone un’originale applicazione della teoria dei molti mondi della meccanica quantistica, in base alla quale ogni decisione produce una biforcazione della realtà, la produzione di una realtà parallela dove qualcosa – anche solo microscopica – è diversa. Una teoria molto considerata negli ambienti della meccanica quantistica, nonostante sembri ripresa da Slining Doors. E che potrebbe avere qualche interessante risvolto pratico, come mostra appunto Source Code.Il fascino del film sta però tutto nel suo finale. Siamo stati abituati a tanti grandi film di fantascienza che proprio nelle ultime scene rovesciavano gli schemi e trasformavano la pellicola in un capolavoro. Sarà il caso di Source Code? L’onestà intellettuale dei suoi produttori sta nella semplicità dell’intreccio, nella “pulizia” della trama, che non vuole strafare. Ma lo spunto di riflessione enorme viene comunque lanciato alla fine del film, e costringe lo spettatore a parlarne anche dopo essere uscito dalla sala. Lo sceneggiatore Ben Ripley sintetizza così la questione: “Cosa accade al mondo del Source Code quando ce ne andiamo? Non lo sappiamo. Esisteva prima che vi accedessimo, oppure lo abbiamo creato noi? Non lo sappiamo”. Ripley parla del film, o parla del nostro mondo? Non sappiamo nemmeno questo.