Parte Prima - 2007
Richard lo rammentava male. Come se fosse un quadro e lui lo stesse osservando, non come un ricordo vivo e palpitante nel quale lui aveva avuto una parte.
In effetti l’immagine era così vivida che l’aveva fatta dipingere, con i primi di quelli che sarebbero diventati gli osceni profitti dei suoi affari, e aveva collocato il quadro nel suo ufficio – in ogni versione del suo ufficio, le ultime tanto grandi che aveva dovuto trovare un modo speciale per esporre il dipinto, per farlo rimanere il centro della sua visione.
Il falso ricordo, e il dipinto, erano così:
Lui è nel cortile dietro casa. Alla sua sinistra c’è l’altalena; alla sua destra, file di bucato che corrono dritte come binari della ferrovia.
Ha otto anni, piccolo per la sua età, spiccatamente biondo, i lineamenti ancora informi. Il viso è rivolto verso il cielo notturno, la Luna più grande del solito. Gli illumina la faccia come l’aureola di un quadro religioso medioevale, di un bianco così acceso da sembrare più viva di lui. Tuttavia, il ragazzino non sta guardando la Luna ma al di là, dove una navicella di forma conica si dirige verso le tenebre. La nave è quasi invisibile, a parte un’estremità che coglie la luce riflessa della Luna. Dalla nave proviene un luccichio, come se stesse spendendo le sue ultime gocce di energia in un disperato tentativo di salvarsi, un tentativo che anche lui, a soli otto anni, sa che fallirà.
Una volta qualcuno gli chiese perché il centro del suo ufficio fosse un quadro sulla perdita.
Lui rimase sbalordito. Non pensava al quadro, o al ricordo se era per quello, come a una cosa che rappresentasse la perdita.
Al contrario, dal suo punto di vista simboleggiava la speranza. Quell’ultimo, disperato tentativo non sarebbe avvenuto senza la speranza in un lieto fine.
Ecco cos’era solito dire.
Quello che pensava era che la speranza risiedeva nel ragazzo, nella sua memoria e nel desiderio di cambiare uno dei momenti più significativi del suo passato.
Il vero ricordo era prosaico:
La cucina era color giallo acceso, ed era piccola anche se allora non sembrava. Dietro la sua sedia c’erano i banconi, la credenza e un profondo lavello con sopra una piccola finestra che si affacciava sul passaggio al garage. Alla sua sinistra, altre due finestre davano sul grande cortile e sul resto dell’isolato. I fornelli erano esattamente di fronte a lui.
S’immaginava sempre sua madre in piedi davanti alla cucina, anche se c’era anche una sedia al tavolo. La sedia di suo padre era alla sua sinistra, sotto le finestre.
La radio stava sopra al frigo, che non era troppo lontano dai fornelli. Ma il centro della stanza, alla sua destra e quasi dietro di lui, era la televisione, che rimaneva sempre accesa.
Suo padre riusciva a leggere a tavola, Richard no. Sua madre cercava di far conversazione con lui, però a partire dalla tarda infanzia avevano iniziato a palesarsi le differenze nel quoziente di intelligenza.
Sua madre era una donna intelligente, tuttavia lui era fuori categoria. Suo padre, che almeno riusciva a comprendere qualcosa di ciò che diceva il figlio, rimaneva in silenzio di fronte alla sua genialità. In silenzio e orgoglioso. Condividevano un nome: Richard J. Johansenn; la J. stava per Jacob, in onore dello stesso uomo, il patriarca della famiglia, il padre di suo padre – l’uomo che era giunto in quel paese con la sua famiglia all’età di otto anni, sperando, e scoprendo, un mondo migliore.
Quella sera, il 24 dicembre 1968, la casa era addobbata per Natale. Rami di pino sulla tavola della sala da pranzo, bigliettini natalizi su una slitta sotto il televisore in salotto. Candele sul tavolo della cucina, per le quali il padre si lamentava ogni volta che apriva il giornale. Odore di pino, di cera, di biscotti.
Sua madre teneva il forno acceso durante tutte le feste e oltre; era sorprendente che, con tutti quei dolci attorno, lui non ingrassasse mai. Quella sera tuttavia avrebbero fatto una cena normale visto che la Vigilia di Natale non era la loro festa; loro festeggiavano il giorno di Natale.
Nonostante ciò, era eccitato. Amava le feste, il cibo, la musica, le luci sullo sfondo dello scuro cielo notturno. Anche la neve, che di solito detestava, gli sembrava bella. Se ne stava ritto sulla crosta ghiacciata e guardava in alto, scrutando le costellazioni o semplicemente osservando la Luna, chiedendosi come una cosa simile potesse essere così fredda e distante.
Sua madre lo chiamò per cena. Aveva osservato la Luna con il telescopio che suo padre gli aveva regalato a luglio, per il suo ottavo compleanno. Aveva sperato di vedere l’Apollo 8 diretta verso l’orbita lunare.
Diretta verso la storia.
Invece, entrò e si sedette per una cena a base di roast-beef (oppure di polpettone, o di manzo salato con contorno di cavoli), girando un po’ la sedia in modo da vedere la televisione. Walter Cronkite – l’epitome, pensò Richard, dell’adulto affidabile – fece un servizio dal Controllo Missione, apparendo serio e infantile allo stesso tempo.
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