Impossibile non notare le somiglianza della storia con The Island, film di Michael Bay uscito per puro caso lo stesso anno del romanzo di Ishiguro (2005). Anche qui i protagonisti si trovano a vivere all’interno di una realtà chiusa e claustrofobica, non comunicante con l’esterno; anche loro sono cloni, o “agnati”, prodotti allo scopo di donare i propri organi agli originali; anche qui una storia d’amore tra i due protagonisti, interpretati da Ewan McGregor e Scarlett Johansson, e battezzati con nomi asettici (i tre ragazzi di Non lasciarmi hanno solo l’iniziale del cognome, i cloni di The Island hanno cognomi in codice, come “Sei Eco” e “Due Delta”), mette in crisi un’identica certezza che culla i sogni degli uomini normali: ossia che i cloni non abbiano un’anima, siano solo esseri incoscienti, mossi solo da comportamenti istintivi. Ma se istintiva può essere l’autoconservazione e la riproduzione, non così può essere l’amore: è questa la morale alla base dei due film. La differenza sta solo nel fatto che in Non lasciarmi i cloni sono perfettamente consapevoli, nel momento del loro ingresso nella pubertà, del destino che li attende. Questa sorda accettazione è favorita dal concetto dell’”etica della donazione” che il collegio di Hailsham tenta di inculcare ai suoi allievi: “completare” il proprio servizio per permettere che altri esseri umani possano vivere.
C’è da chiedersi cosa possa aver portato alla realizzazione di due storie tanto simili, apparentemente non influenzatesi tra loro. Forse un’inquietudine di fondo?
Nel 2000 la corsa alla decodifica del genoma umano si è conclusa con successo, aprendo una nuova era della storia della medicina. Dieci anni dopo, i miracoli promessi sono ancora lontani dal realizzarsi e le terapie genetiche per curare i tumori nonché diverse malattie ereditarie non hanno finora dato risultati davvero significativi.
Gli scienziati procedono con i piedi di piombo, ricordando che ci vorranno ancora decenni prima che si possa parlare di una vera rivoluzione, ma forse una domanda fastidiosa s’insinua nella mente di molte persone: e se forse questi approcci fossero troppo blandi? Se le terapie genetiche finora immaginate si rivelassero, tutto sommato, inattuabili? Non sarebbe il caso di intervenire con forza e irrompere nel delicato mondo della genetica come un elefante in una cristalleria?
Diversi scienziati, anni fa, davano per scontato che la clonazione umana per fini terapeutici sarebbe diventata la norma: clonare singoli organi, per risolvere definitivamente il problema del rigetto, o clonare se stessi, per avere una fonte continua di parti di ricambio? E perché non spingersi oltre? Un giorno potrebbe essere possibile trapiantare quello che oggi è ancora intrapiantabile, ossia il cervello: allora sarebbe possibile clonare se stessi, allevare queste copie fino alla maggiore età, e poi trapiantarvi il cervello dell’originale affinché prenda possesso di un nuovo corpo, giovane e pieno di vita, abbandonando la vecchia e ormai inutile carcassa che prima lo sosteneva.
È l’ipotesi-limite di un postumanesimo che, mentre considera la coscienza l’unica cosa che ci rende umani, non sfugge a un’autentica venerazione del corpo e della sua giovinezza: nessuno vuole vivere per sempre in un’eterna vecchiaia. Ma vivere in un’eterna, o anche solo in una lunghissima giovinezza, è il sogno atavico dell’umanità. La “soluzione finale”.
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