Cosa c’è nel gioco
Artyom indietreggia e spara, si sposta lateralmente e spara ancora. La creatura rincula un paio di volte, arrancando e sbavando con mostruosa ferocia. Poi si accascia dopo che l’ultimo proiettile gli ha perforato il cranio. Artyom ricarica il fucile mentre il respiro gli rimbomba nelle orecchie. Si avvicina al cadavere della bestia; chissà cos’era stato un tempo, prima che le radiazioni ne mutassero la forma. Scavalca la pozza di sangue e si avvicina alla porta. Un guizzo fa tremolare l’ombra alle sue spalle. Artyiom si volta rapidamente e ricomincia a sparare.
La visione angosciosa di uno spettro atomico ha finito per contagiare anche le espressioni di creatività in ambiti diversi, come quello dei videogiochi. Infatti anche nel mondo videoludico d’ispirazione russa lo spettro dell’olocausto nucleare si aggira, e viene utilizzato come strumento per tirare fuori le pressioni interiori. E’ il caso della serie di S.T.A.L.K.E.R., first person shooter con elementi da gioco di ruolo ispirati al libro dei fratelli Strugatzski molto più che all’omonimo film di Andreij Tarkovskij; infatti in questa saga l’elemento magico non è presente, dimostrandosi in questo fedele allo spirito del romanzo. E’ il caso di Nitghwatch, action game ispirati invece al citato romanzo di Luk’janenko. E’ il caso infine di Cryostasis, recente sparatutto in soggettiva in cui il tema dell’incubo nucleare si intreccia con quello dell’incubo onirico derivato dal nostro subcosciente, e che in qualche modo irrompe nella realtà riplasmandola.
Quando nel 2007 nasce l’idea di un videogame ispirato a Metro 2033, il substrato da cui attingere è molto fertile. Glukhovsky, da appassionato di videogiochi, dimostra subito grande interesse all’idea. Il compito di sviluppare il gioco se lo assume la 4A Games, neonata azienda fondata da un gruppo di programmatori fuoriusciti dalla GSC Game World, la compagnia creatrice proprio di S.T.A.L.K.E.R. Il progetto viene strutturato fin nei minimi dettagli con un obiettivo preciso: cercare di trasferire il più possibile l’atmosfera angosciante e claustrofobia del romanzo nel videogioco.
Esce così a marzo di quest’anno il videogame Metro 2033, e si caratterizza per essere, come lo hanno definito gli stessi sviluppatori, un atmospheric story-driven shooter. Di cosa si tratta? Intanto è un fps puro, uno sparatutto in soggettiva strettamente legato alla tradizione del genere. Niente contaminazioni con altre modalità di gioco, come gli strategici o giochi di ruolo; al limite si può individuare qualche elemento del genere definito survival horror, derivato dagli ambienti claustrofobici e dalla qualità dei nemici da affrontare. Per il resto, nessuna possibilità di free roaming, ovvero di escursione libera all’interno degli ambienti; il percorso che deve compiere il giocatore è lineare e stabilito, le scelte ridotte al minimo che comportano però la possibilità di due finali alternativi. L'interattività con gli NPC, i personaggi non giocanti, è anch’essa limitata ai cosiddetti Quick Time Event, sequenze preprogrammate che si attivano in determinanti momenti del gioco.
Ma soprattutto, e autentica rarità al giorno d’oggi, nessuna possibilità di multiplayer. Niente sessioni frenetiche di assalti in rete, niente modalità cooperativa a squadre. Metro 2033 è un’avventura da giocare esclusivamente da soli, al chiuso e al buio, e in questo risulta coerente con la storia raccontata. In qualche occasione si potrà fare un pezzo di strada con qualche compagno comandato dal computer, ma saranno tratti brevi che nulla toglieranno alla dura sensazione di solitudine e di abbandono che permea l’intero gioco.
La trama, pur essendo diversa da quella del romanzo, ne riprende i tratti essenziali. Il ventenne Artyom, nato appena il giorno prima dello scoppio della catastrofe, viene addestrato da Hunter, leader di un reparto di rangers che prova a mantenere l’ordine tra le varie comunità della metropolitana. Quando Hunter e la sua squadra scompaiono in una missione, Artyom parte per un viaggio che toccherà tutte le enclave fino a giungere a Polis, la più grande e ricca, in cui risiedono tutti i Rangers e a cui chiedere aiuto per sconfiggere il pericolo rappresentato dai nuovi mutanti. Il gioco inizia sostanzialmente dalla battaglia finale, e da lì si snoda in un lungo flashback raccontando le vicende accadute nei precedenti otto giorni. Anche tale scelta narrativa si rivela funzionale al focus su cui 4A Games ha deciso di puntare: il totale coinvolgimento del giocatore, che deve sentirsi assolutamente “dentro” la storia, con il minimo possibile di distrazioni. Ecco che allora tutto, dal design dei livelli ai dialoghi, alle armi e agli strumenti, diventa funzionale per costruire un percorso autonomo in cui il giocatore vive e si muove nei cunicoli angusti della metropolitana moscovita. Non c’è sullo schermo il cosiddetto hud, pannello che fornisce indicazioni sullo stato di salute, munizioni eccetera. Per sapere quante cartucce restano nella pistola bisogna guardare l’indicatore sull’arma. Lo stato fisico, la capacità di movimento, dicono quanto il giocatore sta bene. Non c’è nessuna finestra che si apre magicamente per ricordare gli obiettivi della missione: bisogna prendere un taccuino e aprirlo, come si farebbe nella realtà. In ambienti velenosi o troppo freddi (il gioco si svolge in pieno inverno) bisogna indossare una maschera con ossigeno, e quando in seguito alla temperatura troppo bassa o qualche colpo dei nemici il vetro della maschera si incrina, la paura diventa reale.
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