E’ evidente l’influenza di una certa atmosfera fantasy e magica sullo sviluppo di Metro 2033, tanto che in patria Glukhovsky è stato definito il Tolkien post-atomico. Lo stesso scrittore in alcune interviste ha fatto l’elenco dei suoi autori preferiti: dallo stesso Tolkien a Garcia Marquez, da Borges a Kafka, da Boris Vian a Cortazar. Per la fantascienza ci sono Ray Bradbury, Philip K. Dick, e i classici della fantascienza razionale dell’est, da Stanislaw Lem ai fratelli Arkadi e Boris Strugatzski. Glukhovsky però si distacca dalla tradizione della fantascienza sovietica, spostando la propria attenzione verso atmosfere da realismo magico tipiche della narrativa fantastica russa degli ultimi anni, e di cui è un altro esempio il ciclo di I Guardiani della Notte (anch’esso diventato videogioco, oltre che film) di Sergej Luk’janenko. Romanzi in cui il contesto fantascientifico è contaminato da elementi dell’urban fantasy e che non di rado sforano in rappresentazioni di tipo mistico. Rispetto alla forza geometrica della prosa degli Strugatski, o alla razionalità positiva, anche se politicamente ingenua, dei racconti di Ivan Yefremov, questi romanzi si presentano con una veste dark, in cui il conflitto tra un’umanità apparentemente perdente e i suoi nemici simboleggia in modo fin troppo esplicito il contrasto buio-luce. Glukhovsky entra pienamente in questo filone, inserendo una classica storia di formazione in un’atmosfera angosciosa da fine del mondo sospesa, e senza risparmiare riflessioni su parecchi temi e critiche alla storia russa che l’autore interpreta alla luce delle sue convinzioni nazionaliste.

Nel mondo del romanzo le varie stazioni della metropolitana sono state trasformate in microcittà-stati, nelle quali i superstiti replicano le forme di governo (o di non-governo) che hanno caratterizzato il mondo pre-catastrofe: organizzazioni democratiche, regimi dittatoriali, teocrazie religiose, sistemi ultraliberisti. Il metrò diventa quindi rappresentazione del mondo pre-catastrofico, ma soprattutto dell’incapacità umana di scrollarsi di dosso vecchi dogmi e sistemi, anche quando l’olocausto atomico è lì a dimostrarne il fallimento. Alla fine, sembra dire Glukhovsky, i pochi coraggiosi che si fanno carico di unificare l’umanità trovano ostacoli soprattutto nell’umanità stessa; sembra che la volontà degli uomini, il libero arbitrio, non abbia capacità di incidere sulla realtà (tanto che nella prima stesura del libro il protagonista Artyom muore senza portare a termine la sua missione). Al di là dell’opinione che si può avere sull’interpretazione della fantascienza alla luce (o buio) di un qualsivoglia mistero magico, resta la visione pessimistica di Glukhovsky di una sfida che vede gli uomini interpreti ma che in realtà si gioca su un altro livello, a cui si accede solo attraverso la dimensione del sogno (o dell’incubo). Una visione imbevuta di atmosfere surreali contaminate, è il caso di dirlo, dall’angoscia generata dalla corsa agli armamenti atomici del ventesimo secolo. Il romanzo esprime bene tutto questo, tradendo però la missione originale della fantascienza proprio in un momento in cui sarebbe necessario uno sforzo di razionalizzazione, per trasformare il fantasma nucleare in una creatura a portata d’uomo, da capire per poterla sconfiggere.