Dmitri ha dieci anni e sogna. Ogni volta che prende la metropolitana per andare da casa a scuola, si lascia incantare dall’alternarsi delle luci biancastre delle stazioni e del buio appiccicoso delle lunghe gallerie. Mosca è un bozzolo bombardato dal freddo. Il muro di Berlino è appena crollato, forse molti intuiscono cosa sta per accadere. Per un ragazzino non c’è granché di cui rallegrarsi, e allora Dmitri prova a condire la monotonia dei viaggi aggiungendo il sapore di storie inventate, pizzicando le corde della magia come solo i bambini sanno fare. Le fermate del metrò diventano anfratti popolati da personaggi curiosi e introversi, ognuno dei quali ha una storia da raccontare. Dmitri annota mentalmente ogni storia e la rielabora viaggio dopo viaggio, togliendo e aggiungendo.
Adesso Dmitri ha diciassette anni. Osserva i fogli un po’ sgualciti ordinati in tante pile che ingombrano il tavolo. Fuori la primavera impazza per le strade moscovite, riuscendo per un attimo a far dimenticare i disordini e la crisi economica. Dmitri cerca di far mente locale: su un tavolino basso il vecchio computer usato, rimediato in un magazzino della scuola, lo attende. I sogni che per anni lo hanno accompagnato nei viaggi in metropolitana ora sgomitano verso l’uscita, reclamando il diritto di esistere oltre i confini della sua mente. Dmitri sospira: ci sarà molto da scrivere.
Artyom getta un’occhiata rapida all’indicatore da polso. Si assicura meglio la maschera, controlla il caricatore del fucile. Poi si immerge nel buio. Una melassa bruna gli si incolla sulle scarpe e sul petto, appena perforata dal coltello di luce della torcia. Procede con cautela saggiando il terreno a ogni passo, cercando di ignorare lo scricchiolare dei vetri infranti sotto le suole e prestando invece attenzione agli angoli bui. La porta arrugginita si apre con un lamento strisciante. Le scalette metalliche si inoltrano in profondità, verso i livelli sotterranei dei vecchi bunker antiatomici.
Questa è la storia di Metro 2033, romanzo scritto quasi per gioco dal trentunenne autore moscovita Dmitri Glukhovsky e che nel gioco ha concluso la sua corsa. Quasi ottocento pagine, tradotte in circa dieci ore di videogame. Il meccanismo che tramuta una forma narrativa in un'altra, adattandola al contesto, è ormai consolidato già da parecchi anni ed è entrato stabilmente nelle strategie di marketing. Se già negli anni ottanta film e telefilm di successo avevano la loro versione videoludica, scolpita a base di pixel sui monitor dei primi rudimentali personal computer, gli anni successivi hanno aperto la strada inversa, percorsa dai videogiochi che si trasferivano sul grande schermo con risultati spesso mediocri. Il meccanismo di trasposizione si è appoggiato anche alla narrativa (basti pensare alla saga di Dune di Frank Herbert, e ai videogame collegati), e alla narrativa ha restituito il favore, dando vita al fenomeno delle novelization, romanzi scritti appositamente per completare e ampliare l’universo narrativo dei videogame. Esempi del genere sono i romanzi della saga di Halo, quelli di Gears of War e di Mass Effect. Fenomeno questo principalmente di marketing ma che non manca di spunti di interesse, pur se la qualità seriale dei romanzi in questione non brilla per originalità.
Anche Metro 2033 ha fatto questo percorso, da libro di grande successo in Russia (oltre quattrocentomila copie vendute) a videogame che si è scavato un posto di rilievo nel panorama internazionale. Quali sono le sue caratteristiche peculiari? Intanto l’equivoco di fondo sull’origine dell’universo narrativo, almeno per quanto riguarda noi occidentali. Il gioco, in vendita in Italia dallo scorso marzo, ha preceduto di qualche settimana la pubblicazione del romanzo edito da Multiplayer.it, facendo pertanto pensare alla classica novelization. Il realtà il romanzo è stato scritto tra il 1997 e il 2002 e ha dovuto attendere il 2005 per essere pubblicato in Russia, quando la sua fama aveva già raggiunto centinaia di migliaia di persone.
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