Da Predator ad Alien vs. Predator: Requiem ne è passata di acqua sotto i ponti hollywoodiani. Eppure l’ossatura della saga, tra stratificazioni e ammiccamenti alle mode del momento, ha conservato l’inossidabile topos della “caccia infernale”, la lotta per la sopravvivenza. Una caccia all’uomo avvincente, che possiamo riassumere nella formula “Dieci piccoli indiani” e l’alieno sadico, per giunta invisibile. Ma con alcuni nobili elementi tipicamente americani: quella pennellata vermiglia dal retrogusto splatter (come si diceva una volta, “un soldo al morto”), quella claustrofobica ambientazione che fagocita uno ad uno gli attori sacrificabili, dal più debole al più nevrastenico, e quell’intramontabile e marcio eroismo western, in ragione del quale l’eroe e l’anti-eroe si confondono, ma tra i due sopravvive l’attore con il cachet più alto.
E sopravvive perché si arrabatta con quel poco che ha, perché mantiene i nervi saldi, evita di correre e sparare come un idiota, e soprattutto perché non si prende mai la briga di chiudere le fila.
Con Predators, che è di fatto un “riavvio” della serie (Robert Rodriguez “canonizza” e salva dalla “continuity” solo il primo episodio), vogliamo ripercorrere la saga dei Predatori, ma in modo inedito. Vogliamo analizzare anche il materiale extra-filmico (che spesso sfugge persino ai patiti) e raccontarvi qualche chicca che, speriamo, possa risultare gradita anche a chi ha già visto i film. Procediamo con ordine.
Siamo nel 1987. Arnold Schwarzenegger, dopo le “prove attoriali” di Commando (1985) e Codice Magnum (1986), ha una dizione americana e una mimica reputate credibili al punto da concedergli vere e proprie battute. L’ex mister-universo rompe gradualmente il muro del mutismo di Conan il barbaro (1982) e del suo seguito, che avevano costretto i registi a soppiantarlo con incalzanti ed evocative musiche wagneriane. Ed ecco la sua grande occasione: un commando mercenario, una giungla inestricabile e una minaccia invisibile. Il fascino intramontabile degli archetipi.
La saga di Predator si apre così, con John McTiernan dietro la macchina da presa (al suo secondo lavoro, ma già solidamente capace di intercettare il gusto del grande pubblico) e i fratelli Jim e John Thomas alla sceneggiatura (un lavoro semplice ed efficace). Ma non basta.
Nel cast, oltre a Schwarzy (il mercenario “Dutch”) figura anche Carl Weather (nel film Dillon, un ex - militare passato alla CIA), voglioso di scrollarsi di dosso i guantoni di “Apollo Creed”, indossati fino a due anni prima (Rocky 4, 1985). Dutch e Dillon, ex commilitoni, sono due volti della stessa medaglia: disilluso il primo, al punto da non volere più “fare i lavori sporchi” per conto del governo, disincantato il secondo, che obbedisce agli ordini dello “Zio Sam” con disinvolto cinismo (“io mi sono svegliato. Svegliati anche tu” dirà al suo vecchio collega). Dutch ha accettato una rischiosa missione (“perché è il migliore”, si chiarisce subito in un dialogo, per evitare fraintendimenti): salvare poveri prigionieri tenuti in ostaggio da un gruppo di guerriglieri centroamericani.
I fratelli Thomas si sbizzarriscono a concepire un manipolo di personaggi da affiancare a Schwarzenegger, riuscendo in un capolavoro di semplicità e di curioso “melting pot”. L’origine etnica dei componenti del team inchioda i caratteri in ruoli naturali, li fissa secondo una distorta e chiara predestinazione “darwiniana”: Blain (Jesse Ventura) è il fanatico cowboy mastica tabacco e, in quanto texano, ha l’arma più grossa e rumorosa, non si trattiene dall’aprire il fuoco contro qualunque cosa respiri nella boscaglia e trasuda testosterone ad ogni piè sospinto; Mac Eliot (Bill Duke), è l’afroamericano integrato, che si commuove pateticamente per la morte del suo amico Blain (il “tirannosauro superdotato”, come ama definirsi all’inizio del film) e in una scena patetica arriva a reclamarne istericamente le spoglie, riuscendo, involontariamente, a suggerire una malcelata omosessualità latente.
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