Se qualche, rara, eccezione si può trovare alla tendenza generale, forse è nel lavoro di Luigi Cozzi. Scrittore e sceneggiatore prima ancora che regista, fin dal suo primo film del 1969, Il tunnel sotto il mondo, mostra la sua conoscenza almeno dei temi e degli schemi della fantascienza moderna. Successivamente, firmando nel 1978 (sotto lo pseudonimo di Lewis Coates) l’avventuroso Starcrash – Scontri stellari oltre la terza dimensione, e nel 1980 Contamination, Cozzi tenta, nelle solite ristrettezze di mezzi, un’interpretazione meno scontata di temi quali la space opera e il dramma sociologico, approfittando anche di un cast piuttosto ricco. Una qualche novità arriva da Mario Gariazzo, che nel corso degli anni esplora con convinzione il tema del contatto con altre civiltà, da Occhi dalle stelle del 1978 a Fratello dello spazio del 1984. Anche Aurelio Chiesa in Luci lontane del 1988 tratta del fenomeno UFO mettendo in risalto l’aspetto più legato al mistero e all’incognito.
Gli ultimi tentativi
Occorre dire che, con tutte le pecche finora evidenziate, fino a tutti gli anni ottanta la cinematografia italiana ha continuato a produrre pellicole fantascientifiche, provando almeno a tenere vivo il genere, pur continuando a dipendere sempre dalla produzione USA. A partire dagli anni novanta la produzione di film sci fi italiani si arresta quasi del tutto. Si possono trovare diverse motivazioni. Da un lato, la continua pressione economica a cui l’intero cinema italiano è sottoposto ha ristretto ulteriormente gli spazi, costringendo i produttori a compiere scelte più orientate al soddisfacimento del mercato interno, la cui tendenza va verso la riscoperta di un certo tipo di commedia e di film più legati a tematiche contemporanee di tipo sostanzialmente sociologico, per le quali la fantascienza non viene considerata un linguaggio applicabile. Le rinnovate normative sul finanziamento pubblico delle opere cinematografiche tramite il FUS (Fondo Unico per lo Spettacolo) finiscono per privilegiare scelte considerate più aderenti al tipo di cultura dominante nel nostro paese, per la quale la fantascienza (e qui torniamo all’influenza di Benedetto Croce) è ritenuta un sottogenere per adolescenti non in grado di trattare temi “adulti”. D’altra parte anche negli USA, da sempre punto di riferimento, la fantascienza subisce un certo riflusso, dovuto in parte all’esplosione del fantasy e del genere legato ai supereroi, difficilmente emulabili da noi. Inoltre la deriva sempre più ipertecnologica e roboante delle produzioni, un esempio tipico delle quali è costituito dai kolossal di Roland Emmerich, sacrificano la trama e rendono improponibile da un punto di vista tecnico qualsiasi tentativo, anche minimo, di ispirazione. Infine l’avvio di quella mania tutta hollywoodiana dei sequel, prequel, remake, reboot e quant’altro, ha un po’ tarpato le ali alla produzione di pellicole più innovative. Non che siano mancati ottimi film, ma nessuno di essi è stato in grado di creare “massa critica” sufficiente per generare processi di ispirazione a livello internazionale; con l’unica eccezione del fenomeno Matrix e di tutte le tematiche legate al cyberpunk e alla realtà virtuale. Non a caso l’unico film italiano di un certo livello degli ultimi quindici anni si rifà proprio a questo filone: parliamo ovviamente di Nirvana del premio Oscar Gabriele Salvatores. Realizzato nel 1996, la storia del programmatore di videogame che vede il protagonista del suo ultimo gioco diventare “autonomo” sotto l’effetto di un virus informatico, è un buon tentativo, pur con qualche sottostrato filosofico di troppo, di provare a far rinascere la voglia di immaginare certe atmosfere e affrontare determinati temi in modo differente. Voglia purtroppo quasi subito soffocata dal timore eccessivo dell’incomprensione e della ghettizzazione, rispetto a un lavoro che anche alle soglie del terzo millennio non viene compreso. Lo dimostrano le critiche abbastanza dure al film, definito “minore”, e il fatto che lo stesso Salvatores rifiuti di catalogare il suo lavoro come fantascienza, il che la dice lunga sugli ostacoli culturali che ancora ci sono da superare.
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