“Come giudichi lo stato di salute della fantascienza scritta da autori italiani? Cos’è necessario fare, a tuo avviso, per promuovere presso il grande pubblico e al di fuori degli editori specializzati la fantascienza italiana?”
Sono queste le due domande che abbiamo posto al centro dell’inchiesta che Delos ha voluto costruire sulla fantascienza scritta da autori italiani. E trattando tale argomento, non potevamo non sentire i diretti interessati: coloro che scrivono e pubblicano regolarmente fantascienza in Italia, seppur tra le mille difficoltà di un mercato che storicamente non è stato sempre molto generoso nei loro confronti. Gli scrittori italiani, dunque, come giudicano il momento attuale per l’editoria? Ecco le loro risposte: alcune sono polemiche, altre sono riflessive, da qualcuna trapela un cauto ottimismo. Il quadro che ne esce è comunque interessante e sarà certamente fonte di ulteriori dibattiti. Quest’inchiesta, infatti, non si ferma qui. Nei prossimo numeri sentiremo i pareri anche dei direttori delle riviste e degli editor delle collane, degli editori e del fandom sull’attuale situazione anche del mercato della fantascienza in generale, non solo di quella italiana. Il nostro obiettivo è di "dipingere" un quadro generale dello stato di salute della fantascienza nel nostro paese, utile – lo speriamo e lo crediamo – a tutti: lettori e professionisti del settore.
Smetterla di chiamarla fantascienza, prima di tutto. Termine abominevole, pretenzioso, cialtrone. Che sa di vecchio, di stantio, di marginale. E oltretutto è pure l’adattamento beceramente pedissequo di un termine straniero, e già questo mette le nostre storie in uno squallido rapporto di sudditanza culturale nei confronti di pretesi “maestri” che a ben guardare hanno ben poco da insegnarci. Non a caso Giorgio Monicelli, che era un signore, aveva coniato questa balordaggine di parola a ragion veduta, per etichettare in modo chiaro il ciarpame proveniente dalle misere pubblicazioni americane per adolescenti. Cosa che andava benissimo negli anni Cinquanta, ma adesso è ora di finirla. Bisogna spezzare questo soffocante legame e recuperare le radici della grande tradizione del racconto fantastico, in cui la letteratura italiana da sempre è maestra: l’uomo artificiale, l’uomo del futuro, l’abbiamo inventato noi: si chiamava Pinocchio.
Poi abbiamo spento il cervello e ci siamo messi a scimmiottare senza nemmeno capirle le solenni pilate del fandom altrui e abbiamo dimenticato chi siamo. Se ci ricordassimo chi eravamo e di quale stoffa siamo fatti, torneremmo a scrivere capolavori immortali.
La fantascienza scritta da italiani ha subito una sorta di ritardo di crescita alle origini, una difficoltà a sdoganarsi e a trovare una compiuta via autonoma, e risente ancora oggi del gap iniziale.
Per fare un esempio, è come se un corridore dovesse gareggiare con dei pesi alle caviglie. E inoltre, avesse meno possibilità di allenarsi rispetto agli altri. E poi, si pretendesse che corresse subito i cento metri alle Olimpiadi. Rispetto agli anglosassoni dell’Età dell’Oro, i nostri autori dell’epoca, se mai avevano una singola risicata occasione, avrebbero dovuto partire subito con un ipotetico botto, dato il mercato molto più ristretto e il pregiudizio anti-italiano imperante. Comunque non tutti sono artisti nati, pronti a sfornare il capolavoro. E certo, non sono questi casi isolati a poter creare un ambiente, ma è necessaria la presenza di un humus adatto, fatto anche di tanti artigiani e medi talenti. Quelli che, qui da noi, se anche c’erano, ben presto devono essersi arresi e passati a fare dell’altro. D’altra parte il discorso dei pesi, del pregiudizio, è un argomento a doppio taglio: può giustificare legittime difficoltà, ma può anche trasformarsi in una sorta di alibi. Magari quel corridore anche nelle migliori condizioni sarebbe rimasto un brocco.
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