“Adattare un romanzo per il cinema significa necessariamente ‘semplificare e ridurre’. Altrimenti, se avessi inserito tutti i personaggi del romanzo e tutti gli elementi della narrazione, anche quelli secondari, il film non sarebbe durato meno di quattro o cinque ore.” Peter Jackson, visibilmente dimagrito al punto da diventare quasi irriconoscibile, descrive così la sua fascinazione nei confronti del bestseller che lui stesso ha adattato per il grande schermo, con il titolo di Amabili Resti, interpretato dalla giovanissima attrice Saorsie Ronan il cui racconto guida lo spettatore in una storia di dolore, violenza, perdono e rinuncia interpretata da Mark Wahlberg, Susan Sarandon, Rachel Weisz e Stanley Tucci nel ruolo inquietante di un gelido assassino. “Questa è una storia d’amore familiare, non quella di un omicidio”, continua il regista, “Non volevo, infatti, che il film risultasse deprimente e che lo spirito determinato di Susie si traducesse nel comunicare allo spettatore un’energia positiva. Alla fine, ti rendi conto che Susie non muore e che vivrà per sempre in un’altra forma.”
C’è qualche punto di contatto con Creature del Cielo?
Credo di capire perché le persone guardino al mio lavoro e provino a individuare schemi e punti di contatto. In realtà, io non seguo un programma, ma faccio i film che mi interessano in quel determinato momento. Creature del Cielo è nato quando ho avuto accesso ai diari di una delle due protagoniste e ho così potuto visualizzare l’intera storia basandomi su quelle pagine. Amabili Resti nasce dalle domande riguardo all’Aldilà, un tema che non ha niente a che vedere con Creature del Cielo.
Come è nato il suo amore per il cinema?
Avevo otto o nove anni e ricordo che qualcosa è scattato in me al punto di farmi sentire fortemente attratto dal cinema di fantasia. Adoravo i film nei quali vi fosse un forte elemento di immaginazione, effetti visivi e magia. Amavo l’escapismo del cinema e ho subito capito che quella dovesse essere la mia vita. Non sapevo cosa significasse essere un regista, certo, ma intuivo che la cosa più ‘figa’ dovessero essere gli effetti speciali e chi li faceva. Pensavo si trattasse dei maghi e – in un certo senso – lo erano e lo sono ancora oggi. Il mio sogno era quello di diventare l’assistente di Ray Harryhausen oppure di quel signore che aveva preparato le maschere per Il pianeta delle scimmie. Qualche anno più tardi ho finalmente iniziato a girare dei filmini in Super8 nei quali facevo esplodere le cose con i fuochi d’artificio. E’ stato tutto molto naturale ed è così che sono cresciuto filmando da diversi punti di vista l’esplosione delle mie astronavi o dei biplani che costruivo. Ovviamente dovevo immaginare delle piccole sceneggiature che, pian piano, mi hanno guidato a studiare il montaggio con tanto di forbici e colla. Quando avevo dodici anni montavo i miei filmetti è scaturito il vero desiderio di portare in vita dei mondi interi grazie al cinema. Ho capito, quindi, che il vero potere risiedeva nelle mani del regista e non dell’animatore, perché potevo raccontare le mie storie.
Quali titoli ricorda in particolare?
King Kong, ;la serie animata dei Thunderbirds, poi sono rimasto ossessionato degli Hammer Films. A diciassette anni ho girato metà di un film che non ho mai terminato con me vestito da vampiro del diciottesimo film nello stile del cinema della Hammer.
Li vedremo mai questi suoi corti?
La cosa più bella del possedere un’intera società è che avendo la tecnologia puoi obbligare i tuoi dipendenti a restaurare fotogramma per fotogramma i tuoi filmini di quando eri ragazzino, gratis. Forse sì…non so. Ci sono alcune sequenze che, per quanto rudimentali, risultano discrete. Forse in qualche Dvd. Per adesso questo lavoro certosino di ripulire i graffi e ricolorare le scene lo sto facendo fare per i miei figli che oggi hanno tredici e quattordici anni e non hanno mai visto questi filmetti. Mi piace l’idea di fargli vedere un film di quando io avevo otto anni e che interpreto l’eroe di una storia di guerra. Credo che si faranno un sacco di risate e mi piace pensare che ridano del loro papà mentre è vestito da soldato o attacca gli zombie.
Cosa significa lavorare in Nuova Zelanda?
Essere un alieno a Hollywood: una condizione straordinaria che mi dà un grande senso di libertà: non vado alle feste e non indosso lo smoking per i ricevimenti dove non vengo, comunque, invitato. Resto un estraneo in quel mondo: un neozelandese che fa un cinema completamente diverso. E’ una situazione molto sana, perché l’industria hollywoodiana richiede alle persone che si conformino al suo modo di fare cinema e al suo stile. E’ sano starmene lontano e i risultati, alla fine, sono buoni e tangibili.
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