Nella narrazione placida, ordinata, si intrecciano le personalità nette e scolpite senza zone d’ombra di una mezza dozzina di sacerdoti. I duetti, ironici, dotati di rimandi teatrali, sono densi di misurata retorica. Il confronto verbale diventa l’escamotage narrativo per introdurre i temi ricorrenti: alla semplicità o alla fermezza dei protagonisti Miller oppone sempre un tragico e solido relativismo degli antagonisti.
In Fiat Lux sono trascorsi sei secoli dagli eventi narrati in Fiat Homo. Il Thon Taddeo (un intellettuale laico in cui ci sembra di rivedere la figura di Alcuino di York o di Adelardo di Corbie), sogna di “liberare” (in senso “umanistico”) le reliquie dell’era prediluviale. Durante la sua permanenza nell’abbazia di San Leibowitz mutano gli equilibri politici dello Utah: re Harregan, sovrano pronto a sfidare l’autorità papale, è riuscito a coronare il suo ambizioso progetto di conquista. L’ordine Albertiano si prepara ad affrontare le ripercussioni di un’articolata catena di eventi.
Gli intellettuali sono ignavi, sottomessi al potere pur di raggiungere un illusorio progresso (e sbaglia, a nostro avviso, chi vuole rivedere nel Thon Taddeo la figura di Albert Einstein); le masse sovvertono ciecamente il clero (espropriano la scuola della Chiesa e creano biblioteche pubbliche), cercando un’altrettanto illusoria libertà che finirà per condannarli. Mentre sui deformi, sui reietti “malnati”, grava l’accusa di non possedere l’anima, al di là del mondo civilizzato regnano ancora un distorto senso del diritto, la logica primitiva dei nomadi bellicosi e la superstizione.
Miller si diverte a disseminare nella narrazione piccoli elementi che ci aiutano a dare l’addio al mondo medioevale (la sifilide, il moschetto, lo “pseudo barocco” della statuaria). In Fiat Lux percepiamo i sintomi di un mutamento epocale. Oltre al sapiente inserimento dei caratteri fondamentali dell’umanesimo laico, reinterpretato come distruttivo, scorgiamo la transizione nel disegno politico della monarchia, in procinto di formalizzarsi secondo canoni feudali. Harregan non può non ricordare Carlo Magno: analfabeta, unificatore di un impero (alla fine del racconto si dichiarerà “capo dei clan dei nomadi e vaquero delle pianure”) e fautore del collegium, un’istituzione laica che ricalca decisamente la schola palatina. Ma le somiglianze finiscono qui: nei suoi rapporti burrascosi con il papato, nell’eccessiva emancipazione dal giogo secolare del “nuovo” Vaticano, percepiamo la sua vera funzione: è un generico uomo di potere moderno, scaltro, ignorante e ambizioso. La sua assenza nel racconto (viene per lo più nominato), sottolinea l’importanza del suo sogno egemonico. Harregan rappresenta il nuovo corso: sta per spazzare via un’intera epoca e l’unico, ostinato baluardo deciso a resistere al mutamento è la debole e ormai anacronistica abbazia. Eppure Dom Paulo, l’abate di San Leibowitz, riuscirà ad opporre solo un pio e inefficace attendismo.
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