Quanto la terra grida è impossibile non ascoltarla. Tapparsi le orecchie non serve. Lo sanno gli abitanti di L’Aquila e dei centri limitrofi, ultimi in ordine di tempo ad aver udito quel grido rabbioso e squassante. Prima di loro in Italia l’avevano sentito gli abitanti dell’Umbria, e prima ancora quelli dell’Irpinia, del Friuli, del Belice, e ancora indietro fino al lontano 1908, al rombo che devastò Messina e Reggio Calabria. E questo solo per citare i terremoti peggiori, quelli che hanno fatto le maggiori vittime e i maggiori danni. Per non parlare di ciò che è accaduto nel resto del mondo, dalla Cina all’Indonesia, dal Cile all’India.
Un tornado, un’alluvione, un incendio, puoi vederli arrivare, a volte persino prevedere, hai la possibilità di prepararti, di raccogliere le tue cose e le idee. Il terremoto invece arriva di soppiatto, non lascia scampo, non consente riparo. Fra tutte le catastrofi causate dagli elementi naturali, il terremoto è la più subdola e devastante anche sul piano psicologico; questo perché da sempre associamo la terra al concetto di stabilità, di appoggio, di sicurezza. Mentre aria, acqua e fuoco ci scorrono tra le dita, la terra ci riempie le mani, ci appesantisce le tasche. E la mutazione della condizione della terra, oltre a essere la fonte delle paure più irrazionali, è uno dei fattori in grado di simboleggiare maggiormente la transizione repentina verso un futuro inatteso e imprevedibile.
Nell’ambito del filone apocalittico e post-apocalittico, la fantascienza non poteva quindi non affrontare questo tema. Tralasciando le opere cinematografiche, spesso ridotte a cumuli di effetti speciali, è la narrativa a fornire gli esempi migliori di come il terremoto sia in grado di modificare la direzione del futuro. Così John Christopher, pseudonimo del britannico Samuel Youd, in Una ruga sulla Terra (A wrinkle in the skin, 1965) descrive il mondo sconvolto da una serie di potenti terremoti che fanno ritornare gran parte dell’umanità in uno stato semibarbarico, esplicando così il classico tema della perdita della civiltà e dei valori associati. In La piaga di Efesto (The Hephaestus plague, 1973), l’americano Thomas Page usa invece il sisma per mostrare le paure inconsce rispetto a ciò che si nasconde sotto la solida crosta terrestre, rappresentate da una nuova specie di insetti che minaccia l’umanità. Da questo romanzo venne tratto il film del 1975 Bug, e a esso si ispirò il successivo e più ironico Tremors (1990). Più orientato al versante scientifico Terremoto di grado XIII (Degree XIII, 1972) di Leonard Daventry, che specula sulla possibilità che la scala di misurazione degli eventi sismici sia tutt’altro che definita. Successivamente Walter Jon Williams in La grande onda (The rift, 1998), utilizza il terremoto come metafora della rivoluzione sociale e organizzativa.
La paura atavica del sisma viene analizzata anche al di fuori del pianeta Terra. L’inglese Charles Sheffield, uno degli autori che meglio ha saputo coniugare fantascienza e umanesimo, in Quake, pianeta proibito (Summertide, 1990) descrive un mondo che ogni trecentocinquantamila anni è soggetto a forze gravitazionali che lo devastano interamente. Anche i grandi maestri della fantascienza non si sottraggono alla prova: è il caso di Frederick Pohl, che con Le voci del cielo (The voices of heaven, 1994) racconta una classica storia di colonizzazione spaziale nella quale il sisma diventa paradossalmente strumento di sopravvivenza.
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