Aggiungo che negli anni ’90 la “Gazzetta del Mezzogiorno” pubblicò nel periodo estivo rassegne di racconti. Un paio le curai io, ripresentando storie di fantascienza dei nostri scrittori più famosi. Non solo: proposi alla “Gazzetta” altri nomi in veste di collaboratori esterni. Tutt’ora vi scrive Enzo Verrengia, che si occupa principalmente di gialli, spionaggio e a volte anche fantascienza. Eugenio Ragone invece curò per qualche anno una rubrica di scacchi. Bene: credo che molto, moltissimo della mia “carriera” fantascientifica non avrebbe avuto questo respiro, se non avessi vinto il mio Premio Urania.
Quanta importanza ha avuto, secondo te, il premio Urania per la fantascienza italiana, in questi vent’anni di vita?
Il Premio ha certo avuto la sua importanza, ma secondo me non quanta ne sarebbe stata necessaria – né avrebbe potuto averla – per valorizzare i nostri autori noti e ignoti. Chiaro che Urania ha fatto ciò che poteva, ma con un romanzo italiano all’anno – raramente due - nessuno può pretendere, né mai ha preteso, di creare una scuola o quanto meno un gruppo significativo di narratori. Di fatto, moltissimi dei vincitori si trovano oggi nella stessa situazione di partenza, se non sono addirittura scomparsi. Porre la questione in questi termini potrebbe quindi risultare fuorviante. Il punto è che in un cinquantennio, in Italia nessuno è riuscito a valorizzare la nostra fantascienza. La fantascienza italiana c’è da decenni, è cospicua, vanta i suoi piccoli capolavori, ma resta nota solo a un numero ristrettissimo di fan. I lettori esterni neanche sanno che esista una sf italiana, al più conoscono Evangelisti (che peraltro, pur bravissimo, non scrive esattamente fantascienza, se non di rado). E qui si può scivolare su un percorso rischioso: di chi la responsabilità? Secondo me, un po’ di tutti. Dai Fruttero-Lucentini con la puzza al naso, ai lettori che pretendevano solo sf made in Usa, e di conseguenza a coloro che intendevano far scrivere agli italiani una sf all’americana, fino agli autori che quando scrivevano si parlavano addosso, magari con prosopopea. Fate voi… Eppure nomi importanti, degni d’essere proposti, c’erano. Da un po’ le cose stanno cambiando. Finalmente.
Parliamo del tuo nuovo romanzo, Il Quinto Principio, in uscita su Urania speciale, l’ultimo numero pubblicato di questa collana. Hai più volte dichiarato di preferire la forma narrativa breve, ma questo tuo ultimo romanzo è di proporzioni insolite in termini di numero di pagine. Da dove nasce, dunque, la voglia e l’esigenza di scrivere un romanzo di mole così grande?
La voglia di scrivere qualcosa di più ampio mi venne a fine anni ’90. Cominciai a prendere appunti, ma senza darmi fretta. Non avevo ancora idee precise su trama e personaggi; mi stava nascendo però in mente un certo scenario. Fino a quel momento, a parte il libro vincitore del Premio Urania e alcuni romanzi brevi (non più di 100 pagine), per circa 40 anni avevo scritto solo racconti. Decisi di tentare il salto. Ma a inizio secolo il mercato degli autori italiani era crollato; per di più il mio lavoro minacciava di diventare un’opera di parecchie pagine. Quindi me la presi molto comoda. Una specie di scommessa con me stesso. Ma a fine 2005 avevo la prima stesura, che diedi in lettura a tre eroici amici (citati nel volume, fra i Ringraziamenti). Ora di trattava di rivedere la stesura e avviare la ricerca d’un editore. Ho tardato molto a concludere, perché inizialmente tentai con editori maistream, che però avevano qualche volume fantascientifico in catalogo. Ottenni solo rifiuti (dai pochissimi che ebbero l’educazione di rispondermi). I motivi erano che il romanzo, pur avendo una scrittura assimilabile al mainstream, era pura fantascienza, ed era troppo lungo. Da una mia ricerca, emerge che (accanto alla mia maxi-antologia di racconti edita da Perseo) “Il Quinto principio” sarà il romanzo italiano di sf più lungo mai pubblicato (forse però mi batte, ma di qualche pagina, “Semen” di Bruno Vitiello, della Perseo). E dire che detesto, in genere, i romanzi troppo lunghi…
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