Sulla Terra li aveva acquistati a circa cinquecento ters l’uno. Qui, merce rara. Impossibile trovarne. Ne avrebbe almeno ricavato dieci volte tanto. Che Nina dicesse quello che voleva. Non si sarebbe fatto sfuggire un affare del genere. Non glielo avrebbe mai, comunque, raccontato.Il mutante se li fece mostrare. Henry ne tirò fuori uno dal bagagliaio polveroso. Lo strano individuo fece ciondolare il capo sul lungo collo assentendo. – Va bene – concesse – puoi entrare. Prosegui verso nord per circa cento miglia. Vedrai stagliarsi davanti a te la corte di Sandog. Contemporaneamente allungò anche le braccia e lo perquisì con lo scanner rilevatore.
– Devi lasciare qui il tuo laser – gli ordinò. – Te lo restituirò se tornerai indietro.
Henry obbedì, consegnandogli l’arma. Risalì celermente in macchina, con un brivido. Non gli era piaciuta l’ultima frase che aveva udito. Forse si stava davvero cacciando in un guaio. Si stava ficcando nella tana del lupo. Faceva ancora in tempo a tornare indietro.
Avviò il motore e il pesante cancello si spalancò davanti a lui.
Lo superò a tutta birra sollevando una nuvola di polvere, timoroso di essere bloccato, ma non accadde nulla.
Proseguì il suo percorso. Il territorio mutò quasi all’improvviso. Il deserto si fece più feroce. La terra sembrava arsa. Zolle intere spaccate. Profonde venature sul terreno sofferente. Sembrava che questa landa desolata non avesse mai visto un filo d’acqua.
In lontananza, alla sua destra, adocchiò delle alte trivelle. Probabilmente gli abitanti del posto trovavano da bere in questo modo. Dovevano andare molto in profondità per ricavarne una scarsa quantità o avrebbe visto un minimo di tentativo d’irrigazione per l’agricoltura, ma zero. Pensò che sulla Terra ormai si riusciva a manovrare il tempo atmosferico a proprio piacimento e le coltivazioni a livello intensivo erano un po’ ovunque.
Già, ma la Terra era la Terra. Lui invece era su Artemide: uno dei pianeti abitati dalla vita più dura tra tutti quelli conosciuti.
Lalande era allo zenit. Faceva davvero caldo. La tuta che aveva indossato contribuiva a creargli disagio. Attivò il meccanismo refrigerante. Ne ebbe immediato sollievo.
Sorseggiò dell’acqua. Ne aveva portata in grandi quantità in modo da fronteggiare qualsiasi imprevisto. In quel deserto non c’era da scherzare: doveva essere equipaggiato.
Finalmente, dopo oltre un’ora di tragitto, una grande costruzione di terracotta rinsecchita, con svariate guglie dalla forma elaborata, si parò dinanzi a lui.
Alle spalle della stessa, alte dune di sabbia assieme all’aria tremolante, le conferivano un aspetto misterioso. Da miraggio.
Si fermò, scese dall’auto. Non c’era gente intorno. Solo un bambino dalla carnagione verde sedeva sui gradini che conducevano all’atrio principale.
– Ciao amico – gli si avvicinò con fare amichevole – non c’è nessuno nei paraggi?
– Perché dovrebbero? – Alzò lo sguardo, fissandolo con i suoi profondi occhioni scuri che spiccavano su quella pelle di carta velina.
“Che razza di domanda” s’irritò.
– Non so. C’è un motivo per cui non c’è anima viva?
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