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La nave che era stata casa e patria - anche se temporanea - per cinquantamila persone passava davanti al generale Arun Piet andando alla deriva con gelida regolarità, un relitto senza vita, un ago di metallo contorto e squarciato. Era difficile credere che fino a poco tempo prima fosse stata una cosa viva e piena di vita. Piet la guardava, con una piccola smorfia, occultare una stella dopo l'altra mentre scivolava all'indietro. Era un moto apparente; sia il relitto che la cannoniera di Piet correvano a velocità elevatissima verso lo stesso punto, all'infinito, affiancate come lo erano state fin dal momento della resa - se resa la si poteva chiamare. Ma la nave del generale majet accelerava lentamente per raggiungere la velocità di balzo, mentre il relitto seguiva ciecamente una rotta senza meta, che avrebbe mantenuto per millenni interi, ignaro e indifferente al suo carico di morti e alla tragedia che aveva avuto come sfondo i suoi corridoi ora bui - e avrebbe proseguito fino a che non sarebbe stato corroso dalle rade particelle che riempivano lo spazio interstellare, o finché non avesse incontrato un corpo celeste contro cui schiantarsi per potere finalmente morire. Non era più una nave con un nome, non più un luogo familiare a cui tornare con gioia, a cui pensare con nostalgia, da chiamare casa, riparo - sicurezza. Era solo un corpo freddo e morto fra migliaia di altri nel cosmo.

Piet si stava mordicchiando senza rendersene conto i baffi. Avrebbe preferito riportare la nave sul pianeta attorno a cui aveva orbitato, farla atterrare e lasciarla lì come un colossale monumento alla vita e alla morte di quei cinquantamila uomini che avevano resistito disperatamente, per giorni e giorni, combattendo contro la fame e la sete prima che contro gli assedianti, senza speranza di vittoria, senza possibilità di resa, fino alla distruzione completa. I majet non avevano avuto clemenza, fino a che la Timo non aveva cessato di esistere. Ma non aveva poi molto senso distruggere un popolo per poi fargli un monumento; e d'altronde Piet era probabilmente l'unico nelle forze assedianti, majet e dauti, ad avere pietà o a provare ammirazione per il coraggio disperato degli uomini e delle donne della Timo. Sui ponti delle navi assedianti e giù, sul pianeta verso cui stavano tornando, i suoi uomini festeggiavano e brindavano al massacro.

Piet si voltò. Un po' più indietro, in piedi fra i suoi guardiani, un superstite della Timo osservava la sagoma del relitto che si allontanava. La sua tuta era annerita e lacera, la sua faccia coperta di lividi. Barcollava: ma non c'erano né terrore né odio né dolore negli occhi gelidi di Kaurit Aymer. I prigionieri kaina che le navi assedianti avevano portato via dalla nave erano pochi, in maggioranza bambini e vecchi. A chi domandasse cos'era successo degli altri, degli uomini e dei ragazzi della Timo, Piet poteva offrire solo una risposta secca e crudele: erano stati passati per le armi. Tutti: a centinaia.

Forse per questo Aymer fissava Piet e la sua nave sconfitta con tanta freddezza - pensò il generale - dopo tanti orrori, la disperazione diventava inadeguata. Gli altri prigionieri kaina che aveva visto, però, gli erano parsi spaventati quando, davanti alle telecamere, avevano detto al resto della Galassia che erano trattati bene e umanamente. O forse era solo l'enormità della menzogna; i vincitori si vergognavano troppo di quello che avevano fatto sulla Timo per poter essere umani con i loro prigionieri.

- Fatelo sedere - disse Piet.

- Posso stare in piedi - disse il prigioniero. - E non ho bisogno della sua cortesia, Piat.

- Si sieda! - scattò Piet, e immediatamente se ne pentì. Non c'era senso nell'alzare la voce con quello scheletrico e sconfitto kaina. Ma ormai Piet aveva perso da un pezzo i nervi saldi che per i suoi soldati erano diventati proverbiali.

Le guardie procurarono una sedia e costrinsero Aymer a sedersi. Piet guardò per l'ultima volta la Timo andare alla deriva e poi disse: - Dicono di lei, Aymer, che sia il più grande storico kaina.