Le stelle senzienti è il terzo titolo di Lucius Shepard, pluripremiato autore statunitense, ad apparire nella collana Odissea Fantascienza. Dopo il cupo noir spaziale dalle venature cyberpunk di Solitaire Station (pubblicato nel 2006, vincitore del premio Hugo 1993) e le sinistre atmosfere centroamericane del racconto bellico di Piste di guerra (2007, premio Nebula 1986), tocca ora alla novella finalista al premio Hugo 2008. Ancora una volta ritroviamo il sapore del realismo magico che è il marchio di fabbrica della scrittura di Shepard, ma se i lavori precedentemente proposti si muovevano nell’ambito di un genere ben riconoscibile, saldamente incastonate com’erano nell’immaginario di riferimento della fantascienza (una stazione spaziale coinvolta nel programma di colonizzazione interstellare nel primo caso, una guerra sporca nella giungla dell’America Centrale nel secondo), questa volta ci sorprende non poco la squisita miscela di generi, che fonde fantascienza, inquietudini horror e un senso per il fantastico tout-court, ritagliando inoltre lo spazio per ampi inserti realistici. Ne risulta così un amalgama di generi dal sapore esotico, che colpisce per il concentrato di suggestioni e per lo spessore “letterario” della scrittura di Shepard, messa al servizio di una storia dai forti connotati sociologici, come spesso accade nella sua produzione.
Black William è una cittadina sprofondata nella provincia deindustrializzata della Pennsylvania occidentale. È una terra di miniere e acciaierie e l’impatto ambientale di decenni di attività antropica e di iniziativa industriale spregiudicata si avverte ancora nei boschi e nei fiumi, in cui sembrano annidarsi creature misteriose e terribili. Black William ha preso il nome da un suo illustre cittadino dell’Ottocento, che seminò nei dintorni violenza e terrore spadroneggiando come un duca feudale senza incontrare ostacoli. E un filo sottile si riallaccia a quel passato quando una serie di inspiegabili fenomeni meritano alla cittadina la controversa fama di “Capitale Cerebrale della Pennsylvania”. Le apparizioni si manifestano sottoforma di strane luci, stelle che all’improvviso emergono dalla pietra dell’edificio della biblioteca pubblica, da cui il titolo originario della novella (Stars Seen Through Stone). E se le cose sembrano cominciare a cambiare da subito, dapprima lentamente, poi con un’accelerazione costante che coinvolge un numero crescente di tranquilli – anche se magari non sempre rispettabili – cittadini, solo quando qualcuno riesce a scattare delle foto il fenomeno tradisce il suo oscuro contatto con un “aldilà” da cui sembrano escluse la compassione e la redenzione.
La storia è filtrata attraverso gli occhi di Vernon, produttore musicale con qualche buon colpo alle spalle, che all’improvviso si trova a che fare con Stanky, un cantante asociale e stralunato, insolente al limite dell’arroganza, che sembra però avere tutte le carte in regola per sfondare con il suo "blues postmoderno decostruito". Vernon avverte le potenzialità del ragazzo, lo prende sotto la sua ala e lo prepara per il grande exploit nel circuito musicale. Solo che è grosso modo a questo punto che gli eventi prendono una brutta piega. Un’esplosione di talento coinvolge la gente di Black William e dintorni e, in una maniera che non aveva assolutamente preventivato, Vernon riallaccia i rapporti con Andrea, la sua ex-moglie. Altrettanto improvvisamente Rudy, l’architetto suo amico, sembra trovarsi tra le mani la chiave per spiegare l’enigma, che prende a mettere su carta sottoforma di strip a fumetti. Le tavole, infarcite di strane apparizioni, visioni grottesche e pittogrammi che sintetizzano un astruso “linguaggio delle stelle”, sembrano racchiudere la verità ultima sul fenomeno, un orrore così insostenibile da indurre l’uomo al suicidio. Da questo punto in poi il mistero si farà ancora più fitto fino allo svelamento finale, con un’invasione psichica come non se ne vedevano da tempo. Non a caso Salvatore Proietti richiama, nella sua come al solito dettagliata introduzione al volume, il romanzo Schiavi degli invisibili di Eric Frank Russel (Sinister Barrier, 1943), ispirato dal gusto per l’anomalo e il bizzarro di Charles Fort che pervade prepotentemente anche queste pagine.
Nel continuo altalenare tra i territori del reale e le visioni fantastiche e sovrannaturali, Shepard porta in scena uno spaccato d’epoca strappando questa cittadina immaginaria dai suoi tardi anni ’80 e ricollocandola temporalmente in una dimensione che – come dimostra la tecnologia in uso – non dista molto dal nostro presente. E probabilmente l’aspetto più stuzzicante dell’opera nasce proprio dal conflitto tra il caso di alienazione di massa in cui sembra piombare la popolazione e l’affresco sociale analizzato con lucidità nei piccoli quadri d’ambiente della lenta vita di provincia. Su tutto grava un senso di abbandono, la consapevolezza di occasioni perdute che concede tuttavia spiragli a una speranza non del tutto tradita. Anzi, il messaggio ottimista – forse anche eccessivo – che abbraccia la relazione sentimentale tra Vernon e Andrea, interrotta e quindi recuperata, capace di sopravvivere al tempo e agli eventi e, unico tra i doni portati a Black William dalle stelle, all’estinzione dei talenti e delle facoltà disseminate dai sinistri messi del Verme Stellare, sta a significare proprio che non ogni cosa è destinata al fallimento, se non si limita a essere il semplice frutto di un caso estemporaneo.
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