Un soldato, una guerra interplanetaria, un nemico alieno. Il soldato si trova a cinquantamila anni luce da casa. Si trova in una trincea e deve difenderla. Patisce per la lontananza, per la fame, per le condizioni avverse che una guerra necessariamente comporta. Ad un tratto si avvicina un alieno, un nemico. È ripugnante, orrendo, un vero dolore per gli occhi. Prende la mira e spara: lo uccide. Quel nemico proviene dal terzo pianeta del sistema solare. Sorpresa: il protagonista è un alieno e il nemico è un terrestre.
Il plot appena descritto è quello di un racconto di Fredric Brown del 1954, intitolato Sentinella (titolo originale: Sentry). È considerato un classico della narrativa di fantascienza, ma è anche un racconto caratteristico di questo scrittore e la tipicità sta nel fatto di essere breve: appena una pagina di libro. In poche e studiate parole, Brown costruisce una storia coerente e spiazzante: il lettore immagina per tre quarti della vicenda che a parlare sia un umano, per poi scoprire che il protagonista è alieno e che il nemico “orribile” è proprio un essere umano.
Lo scrittore americano costringe il lettore a riflettere sul pregiudizio (suo e della società) e lo fa in poche battute. Gli alieni possiamo essere anche noi. Fantascienza, dunque, ma anche racconto brevissimo. Ed è proprio sul racconto (lungo e breve) che la science fiction costruisce gran parte della sua fortuna per tutto il Novecento.
Cinquant’anni dopo, James Graham Ballard, altro grande Maestro della Letteratura dell’Immaginario, sottolineava - in un’intervista a Enrico Franceschini, apparsa su La Repubblica del 5 novembre 2003 – proprio la bellezza della forma breve in narrativa.
“Il racconto – affermava Ballard - mi piace perché è una specie di romanzo condensato, perché lo scrittore non può ricorrere a trucchi, non può permettersi di sbagliare nulla: nemmeno una pagina, un paragrafo, una riga. E poi forse è più adatto del romanzo a questa nostra era così rapida, effimera”.
Ma non solo. Quell’intervista era appropriatamente intitolata “Gli alieni siamo noi”, con l’obiettivo di sottolineare il tipo di fantascienza che Ballard amava. Nell’intervista, infatti, lo scrittore inglese affermava che: “Non mi è mai piaciuta la fantascienza all´americana, quella che esplora nuove galassie in un distante futuro. Ho sempre pensato che il pianeta da esplorare è la terra, e che gli alieni, i mostri, siamo noi, gli uomini d´oggi. Lo spazio in cui cerco di entrare con i miei romanzi e racconti è uno spazio psicologico, quello siderale non mi interessa”.
Due scrittori che più distanti fra loro non potevano essere, eppure Brown e Ballard avevano in comune la passione per il racconto, su cui la stessa science fiction ha costruito la sua fortuna per tutto il Novecento.
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