— Quindi? — Una delle caratteristiche degli stati quantistici è di essere separati, chi si trova in uno di essi non sa cosa succede negli altri; non c’è neppure coscienza che esistano e che lì le cose possano essere differenti.— Ma il fatto stesso che ne parliamo, non significa che invece adesso ne siamo coscienti?— Esatto. Quello che una volta era un fenomeno casuale, episodico, sta diventando frequente. Forse le altre realtà stanno collassando sulla nostra perché noi siamo più avanti tecnologicamente o forse perché abbiamo bisogno del Leviatano.Colette inclinò la testa di lato, mostrando chiaramente di non capire il collegamento. Si sistemò meglio sul divano e ne approfittò per accostarsi ancora di più a Stefano.— Non ti seguo.
— È solo un ragionamento. Non ho prove, al limite solo la mancanza di prove per supportare le altre teorie. Immagina l’insieme di tutte queste Terre e di queste umanità separate a livello quantistico, come se fossero cellule di un unico organismo. Le cellule sono a malapena consapevoli delle cellule che stanno loro accanto, ma non hanno una visione dell’organismo intero, non riescono neppure a concepirlo. Se esistesse qualcosa che supervisiona questo insieme, una specie di singolarità di tutte le umanità, potrebbe agire in modo tale da spostare l’umanità dove serve, in modo da saturare una Terra e costringerla a dare origine a un Leviatano.
— Mi stai prendendo in giro? — rise Colette dandogli un buffetto sulla spalla.
— Mi hai chiesto tu cosa ne pensavo, io ti ho risposto — Stefano era rilassato; quella era un’ipotesi che si era costruito con il tempo, città dopo città. Dava un senso alla cosa. Lo faceva andare avanti.
— Tu mi stai prendendo in giro invece, signor Stefano Danelli — proseguì lei, avvicinandosi e baciandolo.
Stefano si irrigidì. Non era qualcosa che si era aspettato. Quando Colette si fece indietro, lui rimase serio e mormorò freddo: — È meglio se vado in camera mia. Ci vediamo domani mattina.
Colette lo guardò mentre si allontanava e poi chiuse gli occhi, maledicendo la propria stupidità.
Stava camminando in preda a un senso di smarrimento; ancora una volta era in una città che non conosceva, in un labirinto di vicoli che gli permetteva a mala pena di vedere il cielo. Aveva la vaga sensazione di star cercando qualcuno più che qualcosa, ma non riusciva a decidersi su chi, e varie identità indistinte gli affioravano in mente per poi confondersi e svanire poco dopo.
L’ultimo vicolo lo portò su di una spiaggia. Il mare era calmo, e davanti alla costa c’era un’isola bassa e scura che, questo lo sapeva, non era presente in precedenza. Edifici scuri, forse fabbriche, riversavano in cielo fumi densi e neri, che si univano in alto formando un’unica nuvola.
Tramite un ponte raggiunse l’isola, ma invece che percorrerne i viali, si trovò in corridoi privi di finestre e dalle pareti protette da vetri. E dietro i vetri vedeva persone e cose, conosciute e ignote, alcune presenti più volte e altre no. Volti che lo fissavano e oggetti come in vetrina.
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