La tenevo chiusa in un anello.
Diversamente da oggi, all’epoca portavi in giro con te parti di una persona. Una ciocca di capelli, una goccia di sangue, le impronte del rossetto su un pezzo di carta: erano cose reali, che potevi mettere in un medaglione, in una scatolina o in un anello. Potevi portarle in giro, potevi coccolarle, non certo come quegli ologrammi del cavolo. Chi può avere a cuore delle ombre laser? E non parliamo poi delle ricostruzioni nano-tecnologiche, uno schifo.
Bah. Forse il Signore del Creato ha “ricostruito” il mondo dopo che si è un po’ usurato? No di certo. Ha dovuto restare all’originale, come si conviene a una persona assennata.
Quindi, l’ho portata dentro un anello, per ben quarantadue anni, prima che quello fosse letteralmente divorato dal mondo di oggi: ditemi voi se è giusto.
Oh, era così bella. Non malformata come le ragazze d’oggi, per via di tutte quelle modifiche genetiche, con la vita sottile, le chiappe enormi e quelle tette inguardabili. No, lei era naturale, come una donna vera, una dea. Selvaggi capelli neri come acque in tempesta, pelle olivastra, occhi verdi.
Ricordo perfettamente l’esatta tonalità di quel verde: non era erba, non era smeraldo, non era muschio, era una tonalità personale. La ricordo. Io...
- Nonnino?
... la incontrai durante una licenza a Cipro. Era appena finita la guerra Medio-Orientale, una delle tante, come si possono tenere tutte a mente?
Incontrai Daria in una taverna e passammo una settimana insieme. Nessuno potrà mai immaginare che settimana meravigliosa fu quella. Era una brava ragazza anche se era... La gente fa quello che può per sopravvivere. Nessuno lo sa meglio di me. Daria...
- Nonnino!
... mi dette una ciocca di capelli e un bacio lasciato su un pezzo di carta.
Sul momento li conservai in una bolla di plastolux da pochi soldi, il massimo che potessi permettermi, ma in seguito incastonai i capelli e il minuscolo foglio ripiegato dentro un anello. Molto tempo dopo, dopo essere diventato ricco e la morte di Miriam...
- Papà!
Ed ecco che si ricomincia, con mio figlio e i miei nipoti. La vita non sa mai quando deve smettere.
- Papà, i ragazzi hanno cercato di parlare con te. Due volte.
- Quindi questo mi obbliga a una risposta?
Mio figlio Geoffrey sospirò. I bambini (sei e otto anni... cosa diavolo se ne fa un vecchio di cinquantacinque anni di due ragazzini così piccoli, ma Gloria è la sua seconda moglie...) erano spariti nel corridoio. Andavano e venivano.
È domenica pomeriggio e siamo seduti nella mia camera (bella, e lo credo bene con quanto la pago) nella casa di riposo Silver Star. Geoffrey viene tutte le domeniche, ci mettiamo seduti e restiamo a fissarci. Qualche volta viene anche Gloria, qualche volta i bambini, altre volte no. Tutta la faccenda è insopportabile.
Ecco che i bambini si scaraventano di nuovo dentro, stavolta con qualcosa che li segue.
- Reuven, che merda è quello?
Irritato, Geoffrey interviene: - Non dire parolacce di fronte ai bambini e...
- Da quando “merda” è una parolaccia?
-... e tuo nipote si chiama Bobby, non Reuven.
- Allora io sono zaydeh, non “Nonnino”. E se vuoi ti faccio sentire qualche parolaccia come si deve! Tieni quella cosa lontano da me!
- Non è galattico? - dice Geoffrey. - L’ho appena preso!
La cosa cerca di salirmi in grembo. Non è come l’ultimo animaletto che avevano, il gatto rosa con geni di canguro, o una stronzata del genere, capace di saltare sul soffitto.
Questo non è neppure reale, è robot, una specie di quei cagnolini meccanici per i quali i giapponesi avevano perso la testa.
Solo che questo qui si limita a suggerire l’idea di un cane, con linee d’argento luccicanti che qualche volta sembrano sparire.
- Ha una vernice che lo rende invisibile! - grida Eric. - Non lo vedi neppure!
Lo vedo, ma solo in lampi, quando la luce lo colpisce con la giusta angolazione. Mi salta in grembo, agito le braccia e cerco di buttarlo giù, ma è già andato via. Forse.
Reuven urla, come per spiegare: - Ha dei microprocessori!
Geoffrey sentenzia con quel suo modo rigido di dire le cose: - Il robot prende immagini digitali di tutto quanto sta dietro e le trasmette continuamente all’ologramma davanti, in modo che a qualunque distanza superiore a...
- È così che spendi i miei soldi?
Lui risponde rigido: - Il mio denaro, ora. O almeno in parte.
- Non certo perché te lo sei guadagnato, mammoletta.
Le sottili labbra di mio figlio diventano ancor più esili. Odia quando gli rammento chi ha messo da parte il gruzzolo. Da parte mia, non sopporto quando lo dimentica.
- Papà, perché devi parlare in quel modo? Tutto quell’affettato linguaggio rustico. Non hai mai parlato così durante la mia infanzia e non viene certo dal tuo background, vero? Perché, dunque?
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