“Te lo assicuro, non è uno scherzo servire laggiù nella città”Gorbag, capitano degli Orchi a Minas Morgul, dimenticato dalla storiaNon amo particolarmente J.R.R. Tolkien: ho smesso di amarlo quando avevo circa dodici/quattordici anni (curiosamente, sarebbe proprio l’età giusta per leggere e apprezzare la sua roba). Ma sarebbe stupido, per uno scrittore nel campo della letteratura fantasy, rifiutarsi di ammettere l’immensa importanza di questo autore nel canone. Così come sarebbe superficiale il lettore di Tolkien che si rifiutasse di ammettere che, oltre tutta quella prosa pomposa, i nauseanti panegirici dell’Inghilterra rurale e classista, e lo stuolo infinito di dannatissimi elfi canterini che infestano il Signore degli Anelli, sia possibile – a volte – distinguere le tracce di un desolato paesaggio umano sottostante, totalmente in contrasto con la storia di fantasy epico per cui questo libro è famoso.
Quel piccolo guizzo di ansia urbana che ho citato in apertura è una di queste tracce. Arriva alla fine delle Due Torri ed è tratto da una serie continua di dialoghi tra due capitani degli Orchi alla torre di Cirith Ungol. E per un po’ – fino a che Tolkien non si ricorda che i due sono dei Cattivi e gli aizza contro il Buon Sam, Onesto-fino-alla-nausea – abbiamo uno scorcio molto affascinante della vita militare tra i ranghi di Mordor. Gli orchi sono disincantati, male informati e continuamente stressati dalle incertezze che derivano dalla mancanza di informazioni. Sospettano che la guerra stia prendendo una brutta piega per la loro parte, e che i loro comandanti, lungi dall’essere infallibili, stiano commettendo dei gravi errori di valutazione. Si preoccupano che, se la loro parte dovesse perdere – si potranno aspettare ben poca clemenza dai loro nemici vincitori. Borbottano le loro sfortune a bassa voce, perché sanno che ci sono spie tra i loro ranghi e perché la cultura dei loro padroni è ottenere obbedienza seminando terrore. Sembrano anche possedere un rozzo senso dell’umorismo e una significativa lealtà verso i soldati sotto il loro comando. E non amano la guerra, esattamente come Frodo e Sam: vorrebbero vederla finire proprio come tutti gli altri.
Per me questo è uno dei migliori, più coinvolgenti passaggi del Signore degli Anelli. Appare – e sembra strano a dirlo parlando di un romanzo fantasy – reale. Tutto d’un tratto, quei due orchi mi interessano. Grazie a quell’unica laconica frase sulla città, Gorbag viene trasformato da un malvagio perpetratore del male, bruto e schiavista, a un temprato sopravvissuto (quasi noir-esco) stanco del mondo. Gli archetipi così semplicistici del Male vengono strappati via e, al di sotto - nella buona e nella brutale cattiva sorte - resta qualcosa che è fin troppo umano. Questa è la vera sostanza della narrativa, questo il dettaglio rivelatore (come avrebbe detto Faber, personaggio di Fahrenheit 451 di Bradbury), né Bene né Male, solo la confusa realtà umana di una Grande Guerra vissuta da chi sta nel fango. E non credo di azzardare troppo quando dico che si tratta dei resti fossili dell’esperienza in prima persona di Tolkien durante la Grande Guerra, vissuta tra infernali trincee e il massacro della battaglia della Somme nel 1916.
Il vero peccato è, ovviamente, che Tolkien non sia stato capace (o non abbia voluto) sfruttare questa vena di esperienza personale in tutto il suo valore – infatti sembra che cerchi soltanto di allontanarsene, preso dal panico. Suppongo che sia in parte comprensibile. La generazione che ha combattuto la Prima Guerra Mondiale ha visto ogni possibile archetipo di Bene e Male che conoscevano disfarsi come un cadavere puzzolente e insanguinato intorno a loro. Ci vuole una grande forza per vivere una simile esperienza e sopravvivere, e più tardi ridisegnare la propria visione del mondo per comprendere la scomoda realtà di cui si è stati testimoni. Molto più semplice ritirarsi nella semplicistica nostalgia dei valori spenti o dimenticati in cui credevamo un tempo. Così, non appena ritorniamo a Cirith Ungol nel Ritorno del Re, Gorbag e i suoi commilitoni sono stati convenientemente spogliati dei loro più interessanti attributi umani e siamo ritornati ai malvagi schiavisti schiamazzanti usciti da Mordor, tipici di una fiaba per bambini. La breve visione di qualcosa di umanamente più interessante è svanita, rimpiazzata ancora una volta dai pomposi toni epici del Torreggiante Male Archetipo che si contrappone al Bene Irritantemente Luminoso (ah, e indovinate un po’ chi vince).
Be’, se si chiama fantasy ci sarà pure un buon motivo.
Mi chiedo soltanto perché un adulto dovrebbe andarsi a leggere qualcosa del genere.
E io ho scritto un romanzo fantasy per tutti quegli adulti che non ci tengono affatto.
Spero che vi piacerà.
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