“Agisci in modo che la massima della tua azione possa valere come principio di una legislazione universale” da: Critica della Ragion Pratica, I. Kant.

 

 

DA “MEMORIE DI UN MARZIANO”, SCOPERTO IN RETE NEL 2169

(…)

Vi racconto di come andò la prima volta.

Joe era molto nervoso. Lo eravamo tutti. Joe, in particolare, non riusciva a calmarsi. Continuava a passeggiare su e giù per il selciato. Stava masticando qualcosa, forse un fungo portato da casa, di quelli che qui da noi non si trovano. Per il momento non dava effetti evidenti.

Eravamo arrivati ad Anversa da poco più di un’ora. Il nostro contatto ci aveva detto che avremmo trovato chi cercavamo. Lazarius gli era andato incontro e stavamo aspettando il suo segnale. Era mattina presto, poco dopo l’alba, sulla strada che collega la periferia a Beveren. Lo stare fermi c'irritava. Era l’adrenalina che avevamo in corpo.

Il segnale arrivò alle sette, più o meno, e ci trovò pronti. Anche la trappola lo era. Avevamo solo dovuto nasconderla al lato della strada.

Quando passò l’automobile che conduceva i nostri uomini, la trappola scattò puntuale. L’auto fu ribaltata e per noi fu un gioco da ragazzi prenderli entrambi. Ce n’era un terzo, ma non sapevamo se fosse coinvolto nella cosa e per questo più tardi lo lasciammo andare.

I due prigionieri furono subito narcotizzati e incappucciati. Li conducemmo in un casolare isolato, dove da oltre un mese avevamo fatto preparare gli spazi per la loro “terapia”. È così che la chiamavamo all’epoca.

Li portammo dentro due stanze separate. Li legammo e li lasciammo lì. Due ore dopo arrivò Lazarius con gli psicopatici. Li aveva trovati Marinus, che era l’esperto in questo genere di faccende. Li guardai appena furono entrati. Erano molto diversi l’uno dall’altro. Uno biondo, alto, abbastanza giovane, spavaldo. Il secondo quasi tarchiato, moro, di media altezza e aveva almeno vent’anni di più. Pareva più dubbioso e incerto.

Fu Ivan ad istruirli. Potevano fare quello che volevano, purché fosse brutto. Dovevano fare le cose più orrende che venissero loro in mente. Le vittime erano i due incatenati dentro le stanze. Dovevano morire, questo è certo, ma morire non era abbastanza, e neppure soffrire era la parola giusta. Dovevano rimpiangere di esistere, sperare che il tutto finisse prima possibile.

Li avremmo filmati mentre infliggevano le torture, con telecamere poste in tutte le angolazioni, e loro avrebbero alla fine ricevuto un premio. Anzi, chi avesse offerto lo spettacolo più orrendo sarebbe stato proclamato vincitore della sfida e avrebbe ricevuto un sacco di soldi. Nelle stanze c’erano strumenti di ogni genere per esprimere la loro fantasia.

Non potevano farci altre domande. Non potevano tirarsi indietro. Non potevano deluderci.

Quando iniziarono, controllammo che le telecamere stessero funzionando bene. Poi chiudemmo con attenzione le porte di uscita, innestammo il timer e ce ne andammo. Dopo tre ore sarebbe saltato tutto in aria. Il casolare intero con carcerati e carcerieri. Se lo meritavano, d’altronde.

I due prigionieri avevano rapito un bambino sei mesi prima. Lo avevano portato via mentre era in vacanza con la famiglia. Lo avevano rapito e ne avevano venduti gli organi.