Purtroppo si scoprì ben presto che la tecnologia elettronica disponibile non sarebbe mai
Tecnicamente l’IBM 7030 fu però un notevole successo; grazie al progetto Stretch progressi in tutti i rami dell’hardware e del software che avrebbero richiesto anni furono portati a termine in tempi brevissimi e tutte le innovazioni entrarono a far parte dei calcolatori prodotti nel decennio successivo. I Loa Alamos Laboratories furono oltremodo soddisfatti e una versione modificata rimase in esercizio presso la segretissima agenzia di criptoanalisi NSA (National Security Agency) sino alla metà degli anni settanta, quando fu disattivata non perché obsoleta, ma per esaurimento delle parti di ricambio.
Il Diavoletto faustiano tentatore di scienziati e tecnici aveva prodotto uno storico disastro commerciale, ma adesso bisognava darsi nuovamente da fare. Il progetto Stretch si era sviluppato nell’ambito delle grandi corporation, aventi come fine il profitto e il mercato, ma ormai si era negli anni sessanta e quegli ambienti non erano più interessati alle sfide tecnologiche estreme. Inoltre sino ad allora la corsa al supercomputer aveva fatto conto soprattutto sulla “forza bruta” della tecnologia continuando a replicare i principi enunciati da John von Neumann circa l’organizzazione delle macchine calcolatrici automatiche. Bisognava osare di più e percorrere strade mai esplorate; il Diavoletto decise che era tempo di trasferirsi presso un’Università.
Nel 1964 Daniel Slotnick, conseguito il dottorato in Fisica, era stato chiamato dalla Westinghouse per contribuire con altri giovani scienziati al progetto di un calcolatore di architettura non convenzionale destinato all’US Air Force. Quella esperienza lo aveva a tal punto influenzato che, rientrato in ambito universitario dopo che il progetto era stato abbandonato, aveva continuato a svilupparne le idee fondamentali nella ferma convinzione che un supercalcolatore fondato su architetture totalmente innovative avrebbe consentito alla comunità scientifica di condurre ricerche altrimenti impossibili. L’opera di sensibilizzazione e proselitismo, che andava ormai assumendo le caratteristiche di un’ossessione, trovò un fertile terreno nell’Università dell’Illinois che vantava una consolidata tradizione nello studio e realizzazione di elaboratori sperimentali. Le autorità accademiche, all’inizio diffidenti nei riguardi di un progetto che si presentava azzardato e dispendiosissimo, furono presto travolte dall’ondata di richieste che pervenivano dai ricercatori di ogni dipartimento, ansiosi di poter partecipare all’impresa. L’idea del supercomputer sembrava aver stregato ingegneri, fisici, matematici, insomma chiunque avesse qualche affinità con le discipline elettroniche e informatiche. In breve la realizzazione di ILLIAC (Illinois Automatic Computer) IV, così era stata battezzata la macchina per sottolinearne la continuità con le precedenti esperienze e onorarla del suffisso AC simbolo di nobiltà (ENIAC, UNIVAC), divenne centro e ragione di ogni attività nel campus.
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