L’estate del 1970 era stata particolarmente calda negli Stati Uniti e non solo per le condizioni climatiche.
In quel tempo, in paesi lontani, era in corso una guerra che a molti appariva non giustificata e sanguinosa, se mai esistono guerre giuste e rispettose degli esseri umani. I campus universitari, già inquieti per i fermenti libertari maturati negli anni sessanta, erano ora in ebollizione per l’inasprirsi del conflitto nel Sud Est Asiatico dopo la decisione di estendere i bombardamenti dal Vietnam del Nord alla Cambogia.
All’alba del 24 agosto un furgone, imboccata la strada che attraversava il campus della Università del Wisconsin nella città di Madison, andò a fermarsi in un’area di carico a lato della Sterling Hall sede dei dipartimenti di Fisica e Matematica. Pochi minuti dopo i sei fusti di esplosivo ad alto potenziale stivati al suo interno detonavano provocando il crollo di un’ala dell’edificio, la totale distruzione dei laboratori e danneggiando seriamente altre costruzioni circostanti tra cui l’ospedale universitario. Nell’attentato perse la vita un giovane ricercatore e numerosi altri rimasero gravemente feriti. L’azione dimostrativa era rivolta contro il Dipartimento della Difesa e l’Istituto di Matematica colpevole di accettare finanziamenti dal Pentagono per presunte finalità militari.
Quella che era destinata a divenire la vittima più illustre si trovava tuttavia ben lontana dal luogo dell’attentato e non era un essere umano, ma una macchina capace di suscitare passioni estreme: il supercomputer ILLIAC IV dell’Università dell’Illinois. ILLIAC IV, come il nome suggeriva, era il più avanzato esemplare di una progenie le cui origini risalivano praticamente agli albori della Scienza dei Calcolatori, nata nel 1946 con ENIAC, e proseguita negli anni cinquanta e sessanta da modelli unici sviluppati in ambito accademico o nei centri di ricerca di aziende operanti sul mercato commerciale.
Inizialmente gli sforzi si erano concentrati sul rendere le enormi macchine dai mille indicatori luminosi sufficientemente affidabili e manovrabili in attesa che la nascente tecnologia dei semiconduttori fornisse i dispositivi necessari a tradurre gli studi teorici in realtà industriale.
Nella primavera del 1955 il momento sembrava finalmente giunto: la produzione su larga scala dei prodigiosi transistor al silicio e le crescenti esperienze nel software dei sistemi operativi suggerivano di compiere un “salto quantico”. Così recitava in sintesi un rapporto indirizzato al Consiglio di Amministrazione dell’IBM, proponendo di avviare la costruzione di un superelaboratore in cui confluissero organicamente tutte le innovazioni ormai disponibili, ma finora disperse in decine di modelli presenti su un mercato ancora giovane e caotico. Il progetto Stretch, così nominato in quanto si proponeva di spingere al limite estremo la tecnologia del tempo, avrebbe prodotto una macchina cento volte più potente di ogni elaboratore in esercizio al mondo fornendo all’IBM un vantaggio incolmabile. Sebbene i vertici aziendali non fossero particolarmente favorevoli all’iniziativa avendo sino a quel momento guardato con sospetto alla nascente tecnologia degli elaboratori elettronici, visti come antagonisti delle macchine meccanografiche su cui il dominio era incontrastato, l’entusiasmo con cui Thomas J. Watson jr., figlio del fondatore e futuro presidente dell’IBM, accolse la relazione relegò in secondo piano ogni perplessità. Firmato un contratto con i Los Alamos Atomic Laboratories, che necessitavano di un elaboratore più potente ed affidabile per sostenere il programma di armamento nucleare, il gruppo di lavoro formato da giovani ingegneri e tecnici si mise all’opera in un clima di generale entusiasmo per dar vita all’IBM 7030, nome ufficiale del supercomputer. Sollecitate da una martellante campagna informativa, le maggiori agenzie governative e aziende multinazionali intanto premevano per poter entrare nella lista dei destinatari del futuribile elaboratore dal costo, per il tempo astronomico, di tredici milioni e mezzo di dollari. In ogni contratto era precisato che la macchina sarebbe stata almeno cento volte più veloce di ogni computer esistente.
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