Infodump? No grazie, però...
L’eccesso di parole produce, tra le pagine di un libro, quello che per molti lettori è un’urticaria particolarmente perniciosa. Il termine fa già di per sé sollevare i peli delle braccia: infodump. In italiano suonerebbe molto meno minaccioso: “ridondanza d’informazioni”. Di dettagli, di spiegazioni, di parole (aggettivi, avverbi, marchi commerciali ecc).Le parole, appunto. Siamo in tema.L’infodump prolifera dove c’è poca igiene stilistica e strutturale della storia. È logorrea, pura e fastidiosa, la maggior parte delle volte fine a se stessa. Viene voglia di scrostarla con le unghie dalla pagina. Evitarla però è molto più facile a dirsi che a farsi, specie in fantascienza, dove tutto, per chi legge, è sostanzialmente nuovo e non è subito chiaro come funzioni. Forse nessun autore di SF ne è completamente immune: in tracce è presente ovunque, anche nei grandissimi. Temo che non esistano storie con l’etichetta “Infodump Free”. Per noi fantascientisti è una sorta di peccato originale, impossibile esserne mondati del tutto. A costo di essere accusato di eresia, mi azzardo, però, a dire che è come il colesterolo: c’è un infodump buono e un infodump cattivo.Partiamo dal secondo, più facile da definire: è noia, grigiore, imbottitura farlocca e irritante. È come prendere peso tracannando liquidi. L’infodump cattivo non contiene nulla di nutritivo per la storia, non tonifica, non rassoda, non spiana le rughe, appesantisce e basta. È didascalico, pretestuoso, saccente, parassitario.
L’infodump buono? Ahia. E tutto quello tolto il quale la storia perde fascino, geometrie, curve, incarnato...Difficilissimo dire che cosa esattamente.
“L’infodump buono è il mio, l’infodump cattivo è quello degli altri”?. Alcuni scrittori probabilmente risolvono la questione in questi termini. Io cercherò di non farlo. Una volta un carissimo amico - autore anche lui di fantascienza - mi fece molto garbatamente notare che in Infect@ avevo alzato un po’ il gomito con l’infodump. Mi contestò di averlo fatto soprattutto nei dialoghi tra i due poliziotti (Montorsi e il suo vice Mushmar), impegnati in qualche serrata considerazione a due voci sulla natura dei cartoni animati. Era probabilmente vero, per questo accettai l’osservazione di buon grado e ne feci tesoro. Poi, però, mi chiesi che cosa sarebbe stato della narrazione se il lettore non avesse potuto “origliare” quei dialoghi e ricavarne informazioni utili sul rapporto umani-cartoon. In fondo, non avevo fatto altro che utilizzare il solito adagio poliziotto buono/poliziotto cattivo declinandolo in termini di poliziotto sgamato e poliziotto disinformato. Parlandosi, i due finivano per arricchire di indizi certi punti “oscuri” della storia e dei protagonisti. A tutto beneficio, o almeno così sembrava a me, del lettore.
La fiction, in tv come al cinema, è piena di esempi analoghi: di poliziotti e medici, criminali e avvocati che si scambiano bellamente informazioni utili alla comprensione della trama, dell’ambiente, dei personaggi. E nessuno s’indigna. Il solo fatto che pochi spettatori se ne accorgano è una questione di proporzione e di alternative. Proporzione, perché i tempi “cinematografici” sono forzatamene contratti e per quanto infodump si possa “compattare” in un dialogo, ce ne sarà sempre una dose non tossica; alternative, perché non inserire una spiegazione in un dialogo tra due individui equivale quasi sempre a rinunciarvi tout court (assumendosene quindi le conseguenze in termini di chiarezza dell’insieme)...
I dialoghi sono un escamotage ideale per occultare l’infodump: sempre che li si usino con buonsenso. È una questione di sobrietà e di dosaggio, ma anche di verosimiglianza: non c’è nulla di più fastidioso di doversi sorbire una lezioncina alle soglie di una scena di azione, quando qualsiasi individuo di buon senso reagirebbe con un sacrosanto: “non credi che dovremmo parlarne in un altro momento?”. Trattare i propri personaggi alla stregua di persone vere sta alla base di qualsiasi buona storia.
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