Coercizione perfetta.- Grazie per la vostra collaborazione. Stanza d’attesa numero 33 D, quarta porta a destra del corridoio.
- Quale corridoio? – chiesi all’aria. Un tratto di muro si dischiuse. Oltrepassai l’apertura e percorsi un lungo tratto, che mi parve interminabile, finché arrivai nella sala d’attesa.
Se la reception era piccola, il locale si poteva definire un bugigattolo. C’era un’unica poltroncina verdognola, come le pareti ed il soffitto. Sedetti.
Il tormento diminuì un poco d’intensità. La lingua era sempre gonfia. La passai adagio sulla gengiva infiammata e la sentii calda. In un primo momento, la superficie del dente del giudizio mi sembrava liscia e senza abrasioni, ma poi, esplorando piano, scoprii i contorni frastagliati di un foro vicino al colletto gengivale, dal lato opposto del gonfiore. Una carie, una maledetta infiltrazione che chissà sin dove arrivava.
Guardai all’intorno i muri anonimi. Non scorsi nessuna videocamera. Eppure dovevano esserci. Con il pretesto della sicurezza, le importune macchinette erano piazzate dappertutto. Le trovavi nel metrò, lungo le arterie principali della città, nei centro commerciali, vicino alle banche, ai monumenti, ai palazzi dell’amministrazione cittadina, persino nei cessi. Alla faccia della Legge sulla Privacy. Proprio in quei luoghi solitari, nei momenti più intimi, si potevano generare situazioni di estremo pericolo per la comunità. In altre parole, se non ti attenevi scrupolosamente alle norme d’igiene venivi multato.
La verità, però, era un’altra. I servizi dei locali pubblici erano tutti a pagamento e prima di accedervi dovevi dare il tuo assenso ai trattamento dei dati personali (obbligatori per fruire delle toilette). In questo modo, arrivavano a casa ondate di depliant su saponi solidi, liquidi, aeriformi, decine di modelli diversi di carta igienica, a fiorellini, tripla morbidezza, strappo lungo o corto, leggermente inumidita o asciutta, profumata alla violetta o al mughetto. Per gli intellettuali, invece, c’erano i fogli quadrettati a schema libero se, nella fiduciosa attesa, si aveva voglia di fare le parole crociate. Comunque, lì, di videocamere nemmeno l’ombra.
Finalmente, una porta ben camuffata si aprì alle mie spalle e fui invitato ad entrare.
La stanza era scintillante. Mobiletti in metallo perfettamente allineati, pannelli alle pareti sui quali scorrevano filmati in tre D che decantavano la professionalità del centro medico, cassettiere in acciaio cromato. E una grande poltrona gialla, un po’ scostata, adorna di trapani, frese ed altri ammennicoli di tortura.
Due figure stavano in piedi, con le braccia conserte. Una alta e smilza, l’altra bassa e corpulenta. Vestivano tute bianche con cappuccio e maschera. Sembravano improbabili guerrieri ninjia o, con un guizzo di fantasia, una copia del mad doctor modello Boris Karloff, tanto di moda in quel periodo di revival. L’individuo grassottello doveva essere una donna. La tunica le andava stretta e ad ogni respiro il petto rigonfio lottava per restare al suo posto.
Non appena mi stesi sulla poltrona, questa cominciò ad emettere una vibrazione dolce, quasi una carezza rilassante.
Lo spilungone si avvicinò per primo. Indossava un paio di occhiali fascianti. Doveva essere il medico perché aveva una targhetta identificativa applicata all’altezza del cuore. Non riuscii a distinguere il nome tanto era scritto in caratteri da formica.
- Prego, apra – invitò. In una mano aveva uno specchietto e nell’altra una sonda ricurva.
- Haha hiano – dissi. – Volevo dire “Faccia piano”. Lui capì al volo. La sofferenza era così acuta che anche la parte sinistra del cranio pulsava. Fissai con reverente timore quell’affare acuminato che il dentista rigirava con destrezza tra le dita.
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