Com’è noto, la circostanza mediatica e strutturale che alla metà degli anni Settanta produsse l’arrivo in Italia di un numero esorbitante di serie televisive giapponesi fu – come spiego e documento nel dettaglio nel libro con dati, notizie e testimonianze da fonti diversificate – il cambiamento radicale del sistema radiotelevisivo italiano in concomitanza con un momento cruciale nella storia dell’industria culturale e dell’economia giapponesi.
In Italia, nel 1975-76 la riforma del sistema radiotelevisivo concesse la liberalizzazione delle frequenze di trasmissione a una miriade di soggetti privati, che misero su una moltitudine di piccole emittenti su base regionale, provinciale, urbana, articolandosi in vari casi in network che si spartivano a orari lievemente scaglionati gli stessi programmi, favorendo la diffusione su base praticamente nazionale di programmi di varia origine, a basso costo, che non avrebbero mai potuto trovare spazio solo sulla RAI. Non solo i disegni animati giapponesi, ma anche altri spettacoli a basso costo come il catch giapponese (novità assoluta, visto che la lucha libra centroamericana e il wrestling statunitense erano ancora ignoti in Italia) e le telenovelas sudamericane impazzarono in questi network per anni. Intanto in Giappone il bassissimo costo dello yen, tenuto sotto controllo dal governo di Tokyo nonostante le forti pressioni e critiche europee e statunitensi in un periodo di crisi internazionale, permise l’acquisto da parte di soggetti europei (francesi e italiani) di nuove serie animate a indirizzo infantile e adolescenziale il cui costo era circa un quarto o a volte un quinto degli omologhi prodotti di produzione occidentale. Ciò avvenne per riempire i palinsesti televisivi, altrimenti semivuoti, di quelle tante nascenti reti televisive private moltiplicatesi in Italia dal 1976 e che sarebbero nate anche in Francia a partire dal 1984; il risultato fu una strategia pedagogia involontaria e del tutto sconclusionata per cui, dopo decenni di quasi indifferenza per i bambini nella programmazione della Rai, si passò a un incontrollato sovraccarico di programmi in origine non proprio tutti per bambini – come noto gli anime si indirizzano anche a teenager e ragazzi più cresciuti! – percepiti dal sistema culturale italiano ed europeo come per i soli fanciulli; con tutto lo strascico di polemiche che ho analizzato con puntiglio in Mazinga Nostalgia. In Il Drago e la Saetta ricostruisco invece nel dettaglio il percorso della prima serie avventurosa giapponese giunta sugli schermi italiani e francesi nel 1978, UFO Robo Grendizer (con le avventure di Goldrake), per sottolineare le particolarità delle dinamiche di acquisizione degli anime dal Giappone agli operatori europei in quel periodo aurorale, non a torto definito “il Far West della televisione italiana”. In realtà, fino ad anni recenti il mercato dell’animazione nipponica bastava a sé stesso a livello locale e nei mercati est-asiatici. Le rare esportazioni di serie tv negli Stati Uniti, poi di film animati negli stessi USA e in alcuni Paesi europei, erano viste come occasioni episodiche, non inserite in alcuna vera e propria strategia commerciale di esportazione sistematica.
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