L’Italia invece è stato un luogo pionieristico nell’apertura del Giappone ai mercati europei. Le circostanze sono state praticamente fortuite, come spesso accade in Italia, un Paese ancora oggi fortemente arretrato dal punto di vista delle consapevolezze e delle professionalità di chi amministra le politiche culturali, i centri di accoglimento e propagazione dei prodotti delle industrie culturali straniere, lo stesso apparato locale dei media. La totale ignoranza, a livello elementare, di istruzione scolastica di base, da cui erano e sono caratterizzati moltissimi politici italiani di tutti i colori, e la miopia pedagogica del mondo della scuola, sono come sappiamo delle costanti del sistema culturale nazionale che hanno tenuto incatenato il Paese, dal Sessantotto a oggi, a un’anacronistica incompetenza e sconclusionatezza gestionale, strategica e operativa nel campo dello sviluppo, tanto dei criteri di trasmissione e preservazione del sapere, quanto della stessa produzione dei nuovi saperi. La maggior parte delle persone in carica nei centri strategici del potere e del sapere (politica, scuola, università) sono le stesse che c’erano trent’anni fa. Questo ha prodotto in Italia uno scompenso, una vera e propria malattia generazionale che si è riverberata sul Paese a tutti i livelli. Fra le molte ricadute, nella mia analisi – che appunto non riguarda soltanto fumetti e “cartoni animati” ma tematiche ben più ampie: gli assetti culturali del nostro Paese, il ruolo delle nuove tecnologie nei mass media, l’inadeguatezza strutturale dei media italiani per la pessima gestione operata da decenni... – c’è stata quella di due generazioni di utenti televisivi, formatisi anche con valori morali e una sensibilità estetica provenienti da prodotti giapponesi. Questa formazione mediatica “a doppio binario”, uno dei quali occupato dalla vagonata di serie giapponesi (centinaia e centinaia di storie ed eroi dal 1978 a oggi), è stata prodotta dalla carenza e dalla totale disattenzione pedagogica e da un’autorevole politica culturale e formativa, persa nei rivoli dell’inazione, della pigrizia impiegatizia, del totale vuoto ideologico e formativo. Questo a danno dei bambini, poi adolescenti e giovani adulti, che oggi dovrebbero essere la materia prima del ricambio generazionale e che invece annegano nell’impossibilità di trovare il loro posto nel mondo.
La ricostruzione storico-culturale che propongo nel libro non lascia adito a dubbi: la corrispondenza fra i temi di base degli anime e la situazione venutasi a creare negli anni in Italia è chiarissima. Gli anime hanno sempre a che fare con bambini o ragazzini in conflitto con gli adulti, che non li ascoltano e vogliono imporre dall’alto le loro idee. I bambini sono costretti a combattere contro gli adulti non per spirito di sopraffazione ma semplicemente per trovare un loro posto nel mondo, o anche solo per sopravvivervi. Nelle serie robotiche, o in quelle con i bambini orfani, questi elementi cardine sono delle costanti e rendono conto di come anche in Giappone, come in Italia, la medesima generazione di giovanissimi negli anni Settanta e Ottanta fosse vittima incolpevole di un conflitto politico e culturale irrisolto dai tempi del Sessantotto, che ha prodotto nei due Paesi quella rottura intergenerazionale che non ha precedenti nel mondo contemporaneo. Di qui, peraltro, l’aggancio a uno dei temi di fondo del mio libro, la transnazionalità di certe dinamiche e in particolare la comunanza fra Italia e Giappone nel problema dell’avvicendamento generazionale, vera e propria piaga in molte nazioni sviluppate.
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