Ci spieghi meglio, tra i mille esempi che citi nel libro, la differenza tra character e kyara?
Nel dibattito interno giapponese sul manga il character è un personaggio che vive in una dimensione narrativa realistica, impegnata a livello letterario e che non ha, tendenzialmente, la propensione a “migrare” in altri media e supporti rispetto al suo medium d’origine: pensiamo a La storia dei tre Adolf, personaggi nel senso più complesso che non vivono da nessun’altra parte che non il loro romanzo a fumetti. Un kyara invece è un personaggio di minori (o apertamente scarse) pretese narrative e letterarie, costituito a livello psicologico e morfologico per migrare tra media e merchandising: sono esempi Dragon Ball o il non plus ultra Hello Kitty.
Il kyara tuttavia nacque già da Osamu Tezuka con personaggi che erano veri e propri ibridi, profondi come character ma iconici e “trasportabili” come kyara: si pensi a Tetsuwan Atom (il nostro Astroboy) e Jungle Taitei (noto da noi come Kimba, il leone bianco, che ha ispirato Il re leone alla Disney), divenuti prodotti commerciali di tutte le fogge, grazie alla loro conformazione, al loro design e al loro successo, mantenendo caratteristiche anche drammatiche di personaggi a tutto tondo.
Nel corso del tempo, le strategie che danno forma ai character e quelle che sostanziano i kyara si sono sempre più separate, oggi ha perso vulnerabilità fisica e mortalità: il realismo, l’offendibilità del character iconico sono stati estirpati fino a trasformarli in kyara sottovuoto, che non rispondono alle leggi della narratività naturalistica (o quasi) di Tezuka e vivono in mondi ovattati o privi di riferimenti alla fisicità: pensiamo ad Hamtarô e ancora a Hello Kitty, dove il tema della corrispondenza alle leggi più elementari del mondo reale non è che siano molto prese in considerazione...
Questo dibattito, che per i giapponesi è risultato di un’originalità quasi esplosiva, in realtà per noi è storia vecchia, dato che poggia le sue basi su nozioni assai elementari di divisione fra scopi narrativi e commerciali, fra strategie narratologiche e merceologiche, fra l’iconismo grafico di personaggi anche molto realistici (come il Tintin di Hergé) e l’irrealtà narrativa di eroi disegnati in stile anche molto naturalistico (come i supereroi). In Occidente i giocattoli e il merchandise più vario di eroi dalla corporatura realistica, offendibile e mortale come i supereroi sono molto diffusi, così come di altri personaggi irreali e immortali (perché il tema della morte non viene mai sfiorato nel loro mondo narrativo) come i Puffi. La differenza non sta tanto nelle strategie, negli scopi e nelle destinazioni, quanto nella spasmodica ricerca nipponica di figure iconiche, per indicare i pezzi più disparati di realtà; è questo a mio avviso il punto più importante da analizzare nella figuratività giapponese degli ultimi decenni, non solo a fumetti.
Ovviamente citi anche i tanto vituperati cosplayer, quei ragazzi che si vestono come i protagonisti di fumetti, cartoni o videogiochi... A oltre 10 anni dai primi (a Lucca nel 1997), qual è la tua idea?
I cosplayer sono consumatori culturali di primo piano. Quale che sia la loro sottocultura para- o letteraria specifica (anime e manga, videogiochi, letteratura e giochi di ruolo fantasy, Guerre Stellari, Star Trek...), sono accomunati da una pratica compartecipativa a livello fisico, performativo, topografico, emotivo e culturale che si nutre di letture condivise, che contribuiscono primariamente a formare un codice di appartenenza. Questo vuol dire che sono lettori coinvolti e attivi anche quando il loro immaginario di riferimento è anzitutto audiovisivo, perché le ramificazioni mediali sono molte e i fan hanno un menù culturale ricco e variegato. Non si può dire con certezza se hanno influenzato le vendite di fumetti, perché gli editori non divulgano le loro cifre, ma è evidente che i cosplayer possano influenzare le proposte editoriali, così come gli acquisti e le letture di amici, compagni, fidanzati, coniugi...
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