Rico fu infine scortato dentro un ufficio tanto luminoso quanto in apparenza privo di strumenti elettronici. Oltre l’ampia finestra, la vista sui docks e i magazzini lungo il Rio de la Plata gli ricordavano assurdamente il porto di Genova. Una nuova, violenta fitta di dolore e uno strattone lo costrinsero ad accomodarsi su una sedia traballante. Davanti a lui, una larga scrivania. L’agente che lo aveva arrestato scambiò due parole all’orecchio con il nuovo tipo. L'uomo aveva un colorito olivastro e a sua volta portava i capelli impomatati. In più, rispetto allo sbirro che lo aveva fermato, sfoggiava un paio di anacronistici baffetti, che lisciava in continuazione. Era accomodato a leggere un antiquato dossier cartaceo dietro il piano di plastica celeste. Rico riconobbe il colore vagamente luminescente: bastava scarabocchiarci sopra qualcosa con l'apposito stilo, o anche solo con un'unghia, e il software incorporato avrebbe tradotto i segni in appunti digitali. Di sicuro il massimo che poteva permettersi un funzionario poco avvezzo alla tecnologia. Dentro di sé Rico sbuffò di sufficienza. Quello sbirro di quartiere poteva legarselo intorno al dito mignolo superstite. —Va bene così, Alvárez. Rimanga pure — disse infine il poliziotto facendo un gesto vago vicino a sé. Il gendarme si accomodò alla sinistra del suo superiore, le braccia incrociate dietro la schiena, in posizione di riposo.

— Allora, amico mio — cominciò l'uomo, lisciandosi ancora i baffetti. — Alleggerivi le tasche ai turisti, vero?

L’accento non era certamente porteño.

— Commissario…— iniziò Rico. Non sapeva di fronte a quale grado gerarchico si trovasse, ma commissario era un buon titolo da usare con qualsiasi poliziotto argentino.

— Zitto, non interrompere. Faccio io le domande. E chiamami capitano Salinas.

Cileno, cazzo. Rico lo capì dalla pronuncia arrotata, prima ancora che dalla sua arroganza. Con improvviso timore, alzò gli occhi alle foto, autentiche e costose riproduzioni su carta chimica, che dominavano la parete dietro la scrivania: a sinistra, un uomo con gli occhiali dalla montatura pesante e i capelli candidi. Il compagno Presidente Salvador Allende, 1908-1988 stava scritto in bei caratteri. A fianco, l’altra foto, più frequente nei locali pubblici, ritraeva un uomo in uniforme. Il generale Leopoldo Galtieri, presidente della Repubblica Argentina 1981-1985. Entrambi sorridenti, Galtieri nell’ultimo anno del suo mandato. Si trovava dunque di fronte a un poliziotto cileno che operava a Buenos Aires. La cosa non era rara, ma solo se si trattava di alti quadri. In un paese come l’Argentina, dove nonostante il nuovo ordine i pregiudizi erano duri a morire, i cileni e le loro maniere spicce non erano ben visti.

— Documenti, prego — ordinò il cileno. — No, non quella poco riuscita imitazione in fibra di carbonio che ti ha sequestrato Alvárez — aggiunse con un sogghigno leggendo nella mente di Rico. Stese una mano callosa attraverso il piano del tavolo. — Dammi il documento.

Rico esitò, tradusse tra sé, poi comprese. Salinas aveva usato la parola papél. Ma certo. Il documento per eccellenza. Come ho fatto a non capirlo? Rico consegnò macchinalmente il suo vecchio foglio di congedo, quattro pagine di carta consunta su cui a stento si riusciva ancora a leggere. La sfida non scoraggiò Salinas, che anzi sorrise nel maneggiare gli antiquati fogli.

— Proietti Enrico… Un bel nome da italiano. Non ti vergogni? Il figlio di una nazione illustre e nostra amica e per di più un eroe di guerra. E ti sei ridotto a fare il borsaiolo?

— Con le pensioni che ci paga lo stato! — sbottò Rico massaggiandosi il moncherino. — E poi li leggete i giornali, o no? L’inflazione…

— Ma che inflazione e inflazione! — l’interruppe Salinas. — Il qualunquismo con me non attacca. Sono gli yankees e i maledetti inglesi ;;;che ci strangolano, ieri come oggi.

Da anni ormai le professioni di fede antibritannica erano diventate altrettanto comuni fra i cileni di una bombilla per il mate. Non sempre, però, era stato così, e il sogghigno inalberato da Salinas era eloquente.

Rico ripensò al mate. In quel momento avrebbe accettato quel fangoso surrogato di tè come una benedizione. Si passò la lingua sulle labbra e fissò il suo interlocutore.

— Comunque sia, l’inflazione non è un buon motivo per rubare — insisté il poliziotto. Si sporse calmo al di sopra della scrivania. — Ah, ma certo. Ci sono — aggiunse, picchiandosi un indice ossuto sulla tempia. — Per farmi dimenticare che sei un volgare ladro adesso comincerai a parlarmi male del governo, vero?

— No, no di certo, capitano — si affrettò a negare Rico, tirando su il palmo della mano sinistra e sollevando per abitudine anche il moncherino destro. — Il nostro è il migliore dei governi possibili!