È una differenza di approccio non banale, ed ha a che fare con uno dei grandi temi di sempre della fantascienza, ovvero l’alieno. L’extraterrestre, l’abitante di altri mondi, è stato presentato nella letteratura e nel cinema in una miriade di modi diversi, ma alla fin fine l’approccio psicologico è sempre stato riconducibile a due tipologie ben precise: l’alieno riconoscibile in quanto nostro simile, e pertanto inquadrabile in categorie che possiamo riconoscere e accettare (basti pensare alla pletora di alieni umanoidi che popolano l’universo di Star Trek); l’alieno totalmente differente da noi, che ci impone uno sforzo di comprensione e di ridefinizione dei nostri schemi concettuali. Se tale sforzo fallisce, l’alieno è un mostro da emarginare e distruggere; se lo sforzo riesce, il nostro concetto di normalità ne esce ampliato e rinforzato, più solido e in grado di affrontare nuove sfide.
Il modo di porsi della società verso Oscar e Simona è di fatto un banco di prova. Se, o quando, un giorno più o meno lontano, l’umanità avrà finalmente il “primo contatto” ufficiale con una razza aliena, dovrà scegliere come comportarsi, prima di tutto mentalmente. L’umanità potrà cercare di ridurre l’alienità a un canone accettabile e socialmente riconoscibile, e in tal caso i rapporti potranno evolversi in un quadro consolidato in cui l’extraterrestre è in fondo qualcuno che ci somiglia, e magari può somigliarci di più con qualche ausilio di tipo tecnologico. Ma l’alieno potrebbe essere talmente diverso da rendere impossibile un suo inserimento in categorie predefinite: e allora dovremo inventarci un nuovo approccio, ampliare il concetto di normalità per ricomprendere una diversità più ampia e misteriosa. Sarà uno sforzo immane, e se fallirà i risultati non saranno prevedibili. La presenza di Simona, il suo danzare leggero e fluente, la sua pittura morbida, può essere un buon modo per cominciare ad accettare una diversità intesa come fonte di ricchezza; ciò che un futuro contatto con una razza aliena potrebbe rappresentare.
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