L’odore del metallo è intenso. La sagoma del locomotore si staglia nitida contro l’azzurro del cielo, un grosso insetto in agguato.
– Che te ne pare? – lo incalza Melissa.
Alcuni cespugli di ginestra si piegano nel vento. La loro secca flagranza ha sostituito l’umidore delle conifere.
Lorenzo è senza parole. Allunga una mano verso la motrice, come per saggiarne la consistenza. Chiede: – Come ci è finita qui?
È come se la sua mole, la sua solidità, avessero trattenuto la locomotiva in quel posto: troppo pesante per assecondare lo slancio dei tempi, si è tirata in disparte, rintanandosi in questo cimitero paleoindustriale per abbandonarsi al suo letargo d’acciaio. Spiaggiata in mezzo al nulla, il relitto di un’epoca che non tornerà.
Come quella, perduta per sempre.
La luce del pomeriggio s’incunea sotto la corazza di metallo nero e si infrange contro la vasta trama geometrica di una ragnatela. La spirale bianca segmentata spezza la continuità del fronte d’onda in una mirabile complessità di frange d’interferenza. O almeno così pensa Lorenzo, associando la luminosità diffusa al fenomeno sperimentale a cui ha assistito alle lezioni di scienze nel Virtuale. La prima associazione che gli salta alla testa è con il fascio di luce incandescente emesso da un proiettore cinematografico. Ne ha visto uno in azione al Museo della Tecnica e delle Tecnologie Estinte, restando incantato di fronte alla natura olonomica dell’evocazione.
Lorenzo si scrolla di dosso il ricordo e il suo miraggio di epifania e torna ai suoi fossili. Si dedica a riordinarli. Ce ne sono almeno due appartenenti a specie che non ha ancora inserito in catalogo. Solleva gli occhi su Melissa.
Si è messa a raccogliere fiori per farne collane. D’un tratto gli fa un cenno. – Vieni a vedere! – lo chiama.
Lorenzo salta giù dal suo rifugio all’ombra, nel grembo della locomotiva, e la raggiunge sotto il sole del pomeriggio. Melissa è rimasta incantata davanti a un grosso blocco scistoso. L’azione del sole oppure quella del freddo dell’inverno, o entrambi i fattori combinati tra loro, hanno aperto una faglia nel masso, e lei vi incunea gli occhi a caccia di qualcosa.
– Aiutami a trovare qualcosa per fare leva – dice Melissa. – Potrebbe esserci un tesoro di conchiglie, qua dentro.
– Potrebbe essere la tana di una serpe…
– Se la disturbiamo, scapperà via – lo rassicura Melissa. – Vedrai.
Lorenzo non è convinto, ma comincia a credere che argilla come quella potrebbe essersi trasformata davvero in un piccolo scrigno di segreti. Si avvicina allo steccato che delimita la vecchia stazione. Uno dei paletti di legno è inclinato. Lorenzo lo libera dal filo spinato e torna indietro. Infila un’estremità nel blocco argilloso e poi, facendo forza con Melissa, infrange quell’urna geologica sopravvissuta alle epoche.
Dentro, come per miracolo, trovano il tesoro che si sono aspettati.
– Cosa sono?
Due creaturine sono sepolte in quel giaciglio di pietra e polvere. Nel disegno e nelle proporzioni, Lorenzo riconosce forme indagate un numero imprecisato di volte sulle pagine del Grande Libro. Cerca di recuperarne la denominazione dalla memoria.
– Un trilobite. E un’ammonite.
Sono le specie più antiche in cui si sia imbattuto finora. Un Dalmanites limurulus, cristallizzato nella sua compatta semplicità, matematica applicata che rilancia la magia del 3. E all’aritmetica si contrappone la trascendenza dell’ammonite. Lorenzo non ricorda le date esatte della loro estinzione, ma epoche intere potrebbero averne separato le sepolture. Per qualche ragione, entrambe le creature hanno però deciso di venire a terminare i loro giorni lì dentro, in un blocco argilloso che un tempo era parte di un fondale, e poi è finito ad arrostire al sole.
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