In realtà saranno proprio questi (e altri) nuovi scrittori, con la loro “eccentricità” e l’“esasperato soggettivismo”, unitamente a quei “germi di disfacimento”, che cambieranno le carte in tavola. Ma diversamente dal passato la “rottura” dipenderà, anche da un nuovo atteggiamento nei confronti della realtà e del linguaggio. Apro una parentesi per soffermarmi in breve sulla coeva situazione della fantascienza in Italia. A fine anni Sessanta essa era ovviamente un riflesso di quella d’Oltreoceano, con l’aggravante che poco o nulla giungeva nel nostro Paese dei fermenti innovativi cui si è accennato. Le nostre collane preferivano procedere su binari collaudati, seguitando a propinare i vari Asimov, Simak, Hamilton, Heinlein e via dicendo. Quanto agli autori nostrani, essi arrancavano – come hanno sempre arrancato – strappando modesti e fortunosi spazi qua e là, magari sotto improbabili pseudonimi americaneggianti o esotici; e comunque la stragrande maggioranza dei nostri lettori non ha mai visto – né vede tuttora – di buon occhio cambiamenti o sperimentalismi d’ogni genere. Tranne rare eccezioni, naturalmente.
Generalmente si sottolinea come la fantascienza, negli anni Settanta, risultasse tematicamente molto più emancipata rispetto al passato. Ed è vero. L’antologia Dangerous Visions ne era stata un alfiere. La fantascienza “donna” aveva evidenziato, in passato, pochissimi nomi eccellenti: Leigh Brackett, la già nominata Judith Merril, C.L. Moore (pseudonimo asessuato – per opportunità editoriali – di Catherine Lucille Moore), Ursula K. Le Guin (che però esordì nel 1964). Gli anni ’70 videro invece un’improvvisa fioritura di validissime scrittici d’una fantascienza “femminile” – molto spesso marcatamente femminista – che si staccavano vistosamente dai modelli del passato. Ricordiamo, fra altre, Anne McCaffrey, Phyllis Gotlieb, Naomi Mitchison, Octavia E. Butler, Kate Wilhelm, Elizabeth Lynn, Josephine Saxton, Pamela Sargent, Joan D. Vinge, Vonda McIntyre, Johanna Russ, James Tiptree jr (pseudonimo di Alice Sheldon). Tra le opere di queste autrici particolare rilievo ebbero The Female Man, 1975, di Joanna Russ (Female Man, Nord, 1989); i racconti della Tiptree, romanzi della McCaffrey, della Butler, della Mitchison (Diario di un’astronauta [Memoirs of a Spacewoman, 1962], La Tartaruga, 1988); di Kate Wilhelm; della Le Guin: La mano sinistra delle tenebre (The Left Hand of Darkness, 1969), Libra ed., 1971, I reietti dell’altro pianeta. Un’ambigua utopia (The Dispossessed. An Ambiguous Utopia, 1974), Nord, 1974.
Quanto al nuovo rapporto narrativa/realtà, precursori erano stati Philip Dick, James Ballard, Philip José Farmer, Raphael A. Lafferty, Samuel Delany, Thomas Disch: essi avevano, ciascuno a suo modo, insistito nel denunciare un ambiguo rimescolamento del reale con l’immaginario. Stava nascendo un “doppio” deformato, criticato, accolto, rifiutato. Nuove droghe (la Sostanza M descritta da Philip K. Dick in Scrutare nel buio [A Scanner Darkly, 1977], Cronopio, 1993); psicopatologie (follia, paranoia: J.G. Ballard, Crash, [Crash, 1973], Rizzoli, 1990); sogni che impongono anche agli altri la propria realtà (Ursula K. Le Guin, La falce dei cieli [The Lathe of Heaven, 1971], Nord, 1974); allucinazioni naturali o indotte (Roger Zelazny, Signore dei sogni [The Dream Master, 1966], La Tribuna, 1971); solipsismo, idealismo berkeleyano (Barrington J. Bayley, Problema d’identità [The Cabinet of Oliver Naylor, 1976], in Robot n. 30, Armenia,1977); congiure universali (Raphael A. Lafferty, Quarta fase, [Fourth Mansion, 1969], Nord, 1974), teologie in cui demiurghi simulano o creano mondi (R.A. Lafferty, L’equazione del Giorno del Giudizio [Annals of Klepsis, 1983], Mondadori, 1984); infine mondi artificiali. Dai primi anni ’70 si incomincia a scrivere con maggior cognizione di causa di mondi tecnologici: memorie elettroniche, universi smaterializzati nei quali è possibile immergersi o nei quali noi stessi inconsapevolmente vivremmo. La Realtà Virtuale attraversa buona parte della fantascienza del ’900 almeno a partire da La città dei morti viventi di Lawrence Manning e Fletcher Pratt (The City of the Living Dead, 1930), in Alia n. 2, CS Coop. Studi, 2004; ma è dai ’70 che se ne precisano i contorni. Del 1971 è Non serviam di Stanislaw Lem (in L’io della mente, di Douglas R. Hofstadter e Daniel C. Dennett Adelphi, 1985), racconto in cui si ipotizzano software (BAAL 66, CREAN IV, JAHVE 09) capaci di “seminare” in un computer universi abitati da creature senzienti; è il risultato di una nuova disciplina, la “personetica” (neologismo che fonde “persona” e “genetica”): siamo a una “teogonia sperimentale” che è anche “la scienza più crudele che l’uomo abbia mai creato”.
Oltre a una inedita interazione con il reale, la nuova fantascienza si sofferma sul rapporto col corpo. Tema anche questo tutt’altro che nuovissimo, ma riesplorato in modo nuovo e quasi totalizzante. Tra i precursori si cita spesso Cordwainer Smith (I controllori vivono invano [Scanners Live Invain, 1950], in L’astronave d’oro, Fanucci, 1972). Un primo esempio eclatante della nuova sensibilità con cui si guarda al rapporto corpo/tecnologie invasive è il racconto di Jamer Tiptree jr La ragazza collegata (The Girl Who Was Plugged In, 1974) in Grandi Opere Nord, Nord, 1978. Protesi direttamente innestate nella carne, trapianti di organi, memorie artificiali, nuova cosmesi, chirurgia plastica, anabolizzanti, realtà virtuali, chimica, nuove telecomunicazioni, il ripescaggio aggiornato di pratiche “tribali” (tatuaggi, piercing, scaring), iniziano a disegnare sulla pelle e nella nostra carne nuove mappe della nostra fisicità; il corpo umano diviene un crocevia su cui l’ipertrofia tecnologica e i nuovi comportamenti incidono segni indelebili.
Quanto al linguaggio che cambia, specie in alcuni autori più avveduti, scriveva Antonio Caronia in Incarnazioni dell’immaginario, prefazione al volume I labirinti della fantascienza. Guida critica (Feltrinelli, 1979):
La scrittura della nuova fantascienza (…) è impegnata in operazioni di destrutturazione del reale, di esplorazione di nuovi codici comunicativi, in un universo che la crisi e la scomposizione del linguaggio tiene costantemente aperto (…) La nuova fantascienza gioca con le [vecchie] convenzioni stilistiche e narrative fino a stravolgerle, a farne elementi autentici di critica e di conoscenza. (…) Questa fantascienza vuole caricare di ambiguità i [vecchi] temi del corpo e della sessualità per farne strumento di conoscenza reale e di messa in crisi dei modelli. Pensiamo alla distanza che separa fra loro tre opere che affrontano, ognuna a suo modo, il tema del cambiamento di sesso o dell’androginia: “Non temerò alcun male” di Heinlein (1971), La mano sinistra delle tenebre della Le Guin (1969), Triton di Samuel R. Delany (1976). ;Importante è anche, in tema di linguaggio, il perseguimento di un suo nuovo valore quale “sapere sociale” e “mediatore con il reale”. Si tratta di una mutazione linguistica capace di scendere più in profondità di quanto avessero mai saputo fare gli autori in precedenza. La nuova fantascienza degli anni ’70 mostra d’aver assimilato una consapevolezza della dimensione politica (in senso lato) del discorso, la capacità di articolare una diversità che rompe con il passato.
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