Con Haze, vittima emblematica delle difficoltà insite nel passaggio da una generazione tecnologica dell’entertainment alla successiva, Free Radical paga i conti di uno sviluppo travagliato. Gli autori di Timesplitters, che hanno il vanto di provenire dalla stessa Rare dei capisaldi in tema shooter 007 Goldeneye e Perfect Dark, stavolta mancano l’appuntamento con la storia. Anche se mosso dalle migliori intenzioni e non privo di idee interessanti, l’ultimo videogame della software house inglese è purtroppo offuscato da pericolose ombre, probabilmente figlie di un progetto ambizioso che però a Free Radical non sono riusciti a padroneggiare fino in fondo.
Concepito come un’epopea guerrigliera on the road, Haze cancella le schermate nere di caricamento in favore di un’esperienza più fluida e compatta possibile, in cui i vari livelli, collegati fra loro senza soluzione di continuità, formano i capitoli di un’unica, estesa avventura. Una carta già sfruttata da altri, ma che nel titolo pubblicato da Ubisoft funziona solo a tratti. Spesso infatti gli spostamenti danno l’impressione di meri riempitivi, complice un modello di guida insipido e fasi “sui binari” poco incisive, se non verso il finale, quando dal cappello di Free Radical sbuca un piacevole omaggio ai vecchi giochi da sala. D’altronde la classe non è acqua e, nonostante il retrogusto amaro, la recitazione enfatica e teatrale, anche Haze lo dimostra.
Fulcro dell’universo di gioco è un futuro non troppo lontano nel quale le guerre, piuttosto che affidate alle operazioni di eserciti governativi, vengono date in appalto a multinazionali, che offrono pacchetti tutto compreso per rovesciare regimi e assestare duri colpi alle roccaforti del terrorismo globale. Free Radical evita di mettere in campo un eroe granitico, preferendo invece far vestire i panni del testimone, che ha costantemente il sentore di trovarsi nel posto sbagliato a fare la cosa sbagliata e attraverso il cui sguardo – la prospettiva rimane sempre in prima persona – si scorre la vicenda, che ha lo scopo di aprire gli occhi su ciò che in realtà accade attorno. Che il messaggio non si limiti al videogame pare chiaro. Anche se l’aspetto più affascinante è come le illusioni vengono perpetrate nella sfera digitale, fondendosi con le dinamiche di gioco.
Shane Carpenter, il protagonista di Haze, è un baldo giovane arruolatosi nelle fila della Mantel per aiutare a fare del mondo un luogo migliore. Oltre che leader del settore della milizia privata, la Mantel è un’industria farmaceutica, che ha sintetizzato una droga, il nectar, con la quale imbottisce le sue truppe per aumentare il rendimento in battaglia. Il nectar è la chiave di volta del videogame. L’oro nero di Haze. Fa apparire farfalle dove un attimo prima è stato gettato napalm e scomparire i cadaveri subito dopo una strage. In qualsiasi istante, i soldati possono iniettarsi una dose e godere di allettanti benefici: riflessi potenziati, maggiore resistenza al dolore, vista acutizzata. Nelle battute iniziali del gioco, che catapulta in un Paese dell’America latina, a caccia di quello che i media descrivono come un dittatore sanguinario, si è in parte esaltati dal senso di onnipotenza, in parte costretti dalle circostanze a servirsi dell’integratore fornito dalla Mantel.
Quasi senza accorgersene, si diventa nectar-dipendenti. E quando gli eventi obbligheranno a farne a meno, anche da giocatori si soffrirà una crisi di astinenza, appena mitigata dalle abilità di cui si entrerà in possesso migrando dall’altro lato della barricata. Da lì in poi, e per due terzi dell’avventura (lunga quindici capitoli e una manciata di ore), si imparerà a rivolgere il nectar contro la stessa Mantel. Le debolezze di uno schieramento costituiscono i punti di forza dell’altro. Tanto in single quanto in multiplayer. Anche cooperativo, per condividere in quattro amici la campagna principale. Considerata da molti elemento puramente accessorio, sovente trascurata per concentrarsi su altro, in Haze la modalità co-op è al contrario il piatto clou. Pur senza aggiungere, in questo caso, nulla di nuovo, risulta l’approccio consigliabile per accostarsi al gioco, provando a dimenticare le magagne di un’intelligenza artificiale che fa le bizze e in generale le sbavature di una produzione poco rifinita, che si trascina stanca. Sospesa nel limbo tra essere e avere.
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