Tra le tante possibili declinazioni della fantascienza c’è anche quella della cosiddetta fantascienza sociologica, ovvero quel tipo di narrativa che estrapola un possibile futuro da un fatto sociale della realtà odierna. Soprattutto una fantascienza in cui il protagonista diventa l’uomo medio e il suo costante adattarsi ad una società che si trasforma a ritmi talvolta insostenibili. Su questo genere di narrativa si sono cimentati molti autori sia statunitensi sia italiani. Tra i primi non possiamo non ricordare autori come Philip K. Dick, Robert Sheckley e il duo Frederik Pohl e Cyril Kornbluth. Sul versante italiano sono molti gli autori che hanno prediletto questa linea narrativa. Bruno Vitiello è uno degli autori nostrani che di questo genere di science fiction è, da quasi una ventina, uno dei maggiori interpreti, seppur con un’originalità dovuta alla sua passione per la Storia Rinascimentale e Moderna. Vitiello ha esordito, nel 1989, sulla rivista Futuro Europa e ha continuato a pubblicare su diverse testate specializzate, sia in Italia che all'estero: suoi racconti sono stati tradotti e pubblicati anche in Francia, Spagna e Stati Uniti. Ha al suo attivo tre romanzi: La venere nera (tradotto anche in inglese e francese), Progetto Michelangelo (entrambi pubblicati dalla Perseo Libri) e l’ultimo Semen, uscito per ElaraLibri nella prestigiosa collana Narratori Europei di Science Fiction, di cui parliamo in quest’intervista.
Nel romanzo, l'umanità viene colpita da una catastrofe imprevedibile: gradualmente, ma irrevocabilmente, nei maschi si sviluppa una azospermia totale, rendendoli infertili. L'umanità sembra destinata a scomparire. Inizia così, in un mondo situato a qualche decennio dal nostro, dove lo scontro radicale tra Islam e Occidente si è fatto sempre più aspro e le metropoli sono circondate da periferie nelle mani della delinquenza, con poteri e tecnologie simili a quelle delle potenze mondiali, dove la ricerca sfrenata del sesso e della droga sono diventati elementi di vita, una drammatica lotta contro il tempo.
La prima cosa che colpisce del tuo romanzo è il numero di pagine: oltre 500, che comunque si fanno leggere in modo molto scorrevole. Come è nata la scelta di misurarti con una lunghezza narrativa così ampia e così poco comune per la fantascienza italiana?
Diciamo che la struttura stessa del romanzo, così come l’avevo immaginato, aveva bisogno di un “respiro” abbastanza lungo, necessario per approfondire in modo adeguato l’idea centrale della narrazione, cioè la scoperta, da parte delle principali istituzioni politiche e religiose della Terra (e anche delle principali mafie internazionali) dell’improvvisa sterilità di massa dei maschi umani, con la relativa corsa contro il tempo per accaparrarsi il seme di qualche eventuale uomo ancora fertile, con le buone o, nella maggioranza dei casi, con le cattive… Non per niente la terza parte del libro s’intitola La guerra del seme, un riecheggiamento e anche un dovuto omaggio al bellissimo romanzo La guerra del fuoco di José Henri Rosny… Insomma, ogni epoca ha la sua guerra per la sopravvivenza della specie! Nel mio romanzo, invece degli uomini di Neanderthal per il possesso del fuoco, sono la Chiesa cattolica, i servizi segreti di mezzo mondo, la mala romana e la Yakuza giapponese ad affrontarsi per il possesso dell’ultimo seme vitale dell’umanità: L’umanità in gioco, come s’intitola appunto la seconda parte del romanzo. Mentre la prima parte, la più breve, è la riscrittura di un mio precedente racconto, Il dilemma, che presenta la Chiesa cattolica alle prese con un prete fertile ma riottoso, per scrupoli di coscienza e rispetto del voto di castità, a donare il proprio seme … Tantissime vicende, moltissimi personaggi più o meno collegati tra loro, quindi era normale che Semen risultasse alla fine “mastodontico”… E poi, ad essere sincero, quando ho visto che la materia stessa “lievitava” per forza di cose, pur mantenendo un ritmo veloce e scorrevole, mi sono “lasciato andare” senza impormi limiti di spazio: in fondo avevo anche voglia di mettermi un po’ alla prova, per vedere se ero in grado di scrivere un “romanzone” di lunghezza simile (fatte le debite proporzioni e nel mio piccolo, per carità!) a quelle grandi opere, anche non di fantascienza, che mi avevano affascinato da ragazzo, tipo i romanzi di Tolstoj, Gogol e Dostoevskij. Il fatto che tale dimensione narrativa sia poco comune alla SF italiana non può che farmi piacere: un modo per distinguersi, no?
Semen narra di una immane catastrofe: la totale sterilità degli uomini. Anche in Progetto Michelangelo descrivevi un'Europa del futurosconvolta da cataclismi climatici. Sembra che tu sia affascinato dal tema della catastrofe, che nella storia della science fiction ha una sua storia ben definita. È così?
È così. Il tema della catastrofe, o meglio ancora dei suoi effetti fisici e psicologici sugli esseri umani che si trovano a viverla, mi ha sempre affascinato. Anche perché, per dirla alla Ballard, sono convinto che nella zona del disastro ci siamo già dentro fino al collo, anche se magari ancora non ce ne accorgiamo. Nella mia narrativa, in generale, mi piace tentare di decifrare i segni, i primi indizi, magari ancora deboli, delle catastrofi che ci attendono… sono abbastanza pessimista, da questo punto di vista. La mia SF tende a vedere nero, per così dire. Del resto, il filone catastrofico è in effetti uno dei più importanti dell’intera storia della SF internazionale. Sono in buona compagnia.
Dietro la facciata della catastrofe è presente - a mio avviso – una lucida analisi sociologica della realtà mondiale di oggi: la sterilità è solo uno strumento per far affiorare le miserie umane, il disfacimento dei rapporti, la mancanza di solidarietà fra gli uomini. Sono questi i temi che ti proponevi di affrontare con Semen? O ce ne sono altri?
Ho sempre considerato la SF un mezzo per descrivere e denunciare, attraverso lo specchio distorto dell’esagerazione, della reductio ad absurdum legata all’estrapolazione futura, i vizi, le storture, le manie e le follie del nostro tempo. Sotto questo aspetto, ritengo anzi che la narrativa d’anticipazione (un termine che amo più di quello, troppo generico e vago, di SF, e in cui mi riconosco maggiormente) sia oggi l’unica narrativa davvero realistica, in quanto per descrivere la contemporaneità è necessario, almeno a mio parere, uscire al di fuori del contesto narrato, allontanandosi almeno un po’, nello spazio o nel tempo, dall’oggetto della propria analisi, in modo da vedere le cose in una prospettiva più lucida, focalizzando meglio personaggi e situazioni che magari, finché li viviamo quotidianamente, possono sembrarci normali, o addirittura banali: in fondo ci stiamo davvero abituando alla follia, come ci si abitua a qualsiasi veleno se somministrato a piccole, frequenti dosi: basta vedere i modelli comportamentali ed ideologici propagandati dalla televisione di oggi, per farsene un’idea…
Leggendo il romanzo ci si imbatte in altre due lampanti caratteristiche: il fatto che è ambientato in varie parti del mondo, dall'Italia al Giappone, dall'Inghilterra al Sudan fino alla Cina, e non c'è un personaggio, ma tanti protagonisti che dal loro punto di vista affrontano il problema della sterilità maschile. Anche questa mi sembra una scelta coraggiosa…
Scrivere un romanzo “corale”, dove miriadi di personaggi agiscono in molti luoghi quasi contemporaneamente, è sempre un azzardo: bisogna tenere in mano tanti fili nello stesso tempo, evitando che qualcuno si perda o si spezzi, intrecciandoli poi tutti nell’ordito finale senza dare al lettore l’idea della dispersione… Un lavoro impegnativo, non c’è dubbio, ma di grandissima soddisfazione quando poi, alla fine, ci si accorge che il romanzo è equilibrato, una strada che scorre senza punti morti o vicoli ciechi… Dai commenti che sto ricevendo su Semen, credo di essere riuscito a dare al libro una struttura armonica dove ogni tassello, anche apparentemente piccolo o trascurabile, alla fine rientra a pieno titolo nella dinamica generale della trama. Devo confessare che, anche come lettore, ho sempre apprezzato i romanzi “corali”. Nella SF, quello che amo di più è The man in the High Castle di Philip Dick.
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