Mi sono resa conto che, oltre a non voler ricordare, neanche mi andava di parlare. Mi sono sentita stanca. E poi non era più casa mia sin dal giorno prima, ormai.
È stato così che ho deciso di scendere alla caletta per passarvi la notte; e dopo la notte è giunta la Dea Thesan a portare l’alba: l’alba più squallida della mia vita, una volta che ho potuto immaginare dove se ne sarebbe tornata la Dea, dopo avercela donata; poi, per poche ore mattutine, il sole mi ha scaldato le spalle e la nuca, mentre i miei occhi scrutavano sovrappensiero il via vai di navi tra la città e la Fumosa. Ho visto anche i forni di fusione spalancare le fauci, ingoiare il seme delle stelle e sputarlo fuori sempre e solo sotto forma di fumo, fumo e ancora fumo.
Non ho sentito i morsi della fame mentre il sole girava, e ho scacciato l’ombra del tormento quando il cielo ha cominciato a farsi sempre più grigio, tra i miasmi perenni e gli scambi delle navi.
Non mi sono chiesta più niente. Ho cercato di non pensare al mio passato e al mio futuro. Di svuotare la mia mente. Ho fissato i miei occhi sui riccioli di fumo e i rami delle nuvole.
Grande madre, Uni! Tu che sei misera più di ogni altra madre, fammi guardare fino in fondo ai tuoi occhi, se ne hai davvero il coraggio!
Solo per un attimo, l’idea di tornare al tempio si è affacciata dalla mia testa. Solo per un breve istante, il pensiero di correre a casa piangendo ha fatto breccia nel mio cuore.
Poi mi sono sentita nuvola anch’io.
E così le domande arrivano adesso, tutte insieme. Vorrei cacciarle, ma non ci riesco.
Quella che preme di più al portale della mia mente è quella che vuole sapere che ne sarà di me, ma riesco a farla arretrare, non so per quanto tempo.
Resto seduta ancora un po’ sul bagnasciuga, mentre la risacca respira piano e l’acqua tiepida mi lambisce la punta dei piedi. Il cielo sembra meno grigio quando il sole si tuffa in mare nel tramonto rosato; ma è sempre un rosa sporco, antico. I milioni di pagliuzze dorate che brillano sulla superficie azzurra evaporano in un pulviscolo che, più sale, più si fa bronzeo, poi di nuovo grigio.
Anche il sole è bugiardo e insicuro, a Popluna.
Però, intanto, c’è.
Lui è qui per scaldarci, illuminarci, far crescere le nostre piante e infondere la forza ai nostri animali. Lui serve. Anche se a Popluna deve combattere col ferro e col fumo.
Eccole, tutte insieme, le domande.
E io? Io, a cosa servo? A insegnare le arti tramandate sin dai tempi di Tagete? A nascondere ai “non prescelti” la verità? E allora, perché non sono stati del tutto bugiardi anche con me? Per ingraziarsi le caste sacerdotali in modo subdolo ed eterno? Cosa ne ricaviamo? Denaro e posizione privilegiata? Questa è la paga assegnata alle spie degli dèi per tener buoni i miseri?
No. Non m’interessa.
Dunque mi sento inutile qui.
Il sole capirà. Lui, che anche per oggi sta morendo, disinteressandosi a me, a Uni, e a tutte le altre stelle del firmamento.
Mi alzo lentamente e altrettanto piano m’immergo e mi purifico: i polpacci, le cosce, i glutei, la pancia, dove l’acqua diventa più fredda; i seni, già inturgiditi dalla brezza salsa, il collo... sì, e la sabbia sparisce infine sotto i piedi.Spero di arrivare là, dove il sole morente bacia l’orizzonte bagnato, e qualche pezzo di cielo può cadere, nei giorni più caldi dell’anno. Magari sembrando anche più bello di quel che è in realtà.
Voglio tornare a casa.
Voglio toccare, casa.
Una Chimera.
Lo so.
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