Io mi sento già svuotata.
È come se avessi atteso per anni di vedere il volto di un dio velato e, nel sollevarlo, avessi scorto solo un mucchietto di cenere senza la sua urna.
Così è stato, per me.
Uni lo sa.
Lei se ne stava lì, con Tinia, Mnerva, Maris, Turan, Fuflus, Aplu, Voltumna, Artumes... tutti schierati davanti a me quasi fossero l’opera di un grande maestro della terracotta.
E invece erano loro. Erano proprio loro che, giunti dalle stelle per l’iniziazione di una loro figlia, si stagliavano alteri sullo sfondo della cella centrale del tempio.
Tempio che mi aveva accolta ingenua e trepidante, nell’attesa di sollevare il velo posto sul volto del dio. Rispettosa, avevo salutato la vite sacra con le sembianze di Tinia, ai piedi dell’acropoli; avevo asceso il colle mangiandomi il batticuore a ogni passo; avevo superato le abluzioni tra i brividi del freddo e dell’ansia; avevo salito la gradinata frontale con i seni palpitanti sopra il sangue in corsa; avevo oltrepassato il portico vacillando, sui calzari in pelle di capra preparati da mia madre per l’occasione. Mai, mi avrebbe permesso di calpestare il pavimento della casa di Uni con i sandali che da anni si rotolavano con me nella polvere.
Polvere di stelle, adesso, sarebbe piovuta su di me dal cielo dell’arte e del sapere che non avrò mai.
Poi, l’accoglienza finale nello stomaco di legno della casa degli dèi.
La bianca tunica di lino scendeva pura fino ai miei piedi, e l’hiperion dal sacro bordo scarlatto si adagiava sulle mie spalle come ali di farfalla. Ma erano altre, le ali che sentivo sbattere dentro di me. Non era l’ansia che si annida nello stomaco, era una sorta di follia che si dibatteva nella mia testa, quasi presaga di quel che sarebbe avvenuto e che avrei potuto evitare fuggendo sin dall’inizio.
Ali. Amiche per volare. Per fuggire.
Rimpiansi in quel momento di non aver potuto portare con me il gufo d’alabastro con cui giocavo da piccola. Compagno fedele e alleanza fortunata, avrebbe forse potuto calmare l’angoscia che opprimeva ogni parte del mio corpo, ma un solo gioiello mi era stato concesso: la catena d’argento con appesa una crosta di opale nobile donatami dalla madre di mia madre, contro ogni rigidità mentale. Nella crosta si rincorrevano, esitanti, miriadi di iridescenze simili al colore dell’ambra, come i miei capelli, che le donne di Popluna avevano imbiondito per simboleggiare l’oro delle stelle che sarebbero scese su di me.
Nessuno, però, sarebbe stato al mio seguito: solo io sarei stata ammessa, in quel giorno, nella casa di Uni; io, io e solo il fuoco della conoscenza che mi attendeva e che attendevo, ci trovammo di fronte all’ignoto.
Dallo stomaco all’intestino.
Non so come l’abbiano presa tutti quelli che ci sono passati prima di me, ma è difficile dirlo, proprio perché è difficile che si dica. E come potrebbe essere altrimenti?
Io so solo che ora mi sento svuotata e non ho più voglia di star qui seduta ad attendere il nulla.
Mi hanno detto: “Sarai per sempre uno dei nostri figli prediletti e custodirai il segreto nelle lune a venire, tramandando ai successori la scienza degli antichi padri e delle antiche madri”.
Voce metallica più dell’anima di Popluna stessa nei giorni di tuono e di mare ringhiante.
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