In un mondo in cui tutto è sotto gli occhi di tutti, l'ultima frontiera della segretezza è custodita nell'unico posto che nessuno è ancora riuscito a violare: la nostra mente. Ma che cosa accadrebbe se anche quest'ultima barriera dovesse cadere? Negli ultimi mesi due diversi studi condotti in America hanno messo in forte dubbio la persistenza della sua inviolabilità. Se la macchina della verità è il sogno proibito degli inquisitori moderni, la tecnologia della scansione neurale potrebbe avere anche altre ricadute non del tutto discutibili. Ma vediamo più nel dettaglio di cosa si tratta.
Lo scorso marzo la rivista Nature ha annunciato la messa a punto di una "macchina del pensiero", uno strumento ideato dal neurologo Jack L. Gallant e dai suoi collaboratori dell'Università di Berkeley (in California), in grado di risalire dall'attività cerebrale del soggetto sotto studio all'immagine che i suoi circuiti visivi hanno appena registrato. I ricercatori statunitensi hanno suddiviso l’area della corteccia cerebrale dedicata alla vista in una scacchiera di piccoli cubi, creando a partire da questa schematizzazione un modello matematico finalizzato a descrivere la corrispondenza tra ciascuna unità tridimensionali e le diverse caratteristiche dello stimolo visivo. Kendrick Kay e Thomas Naselaris, due degli autori dello studio, si sono sottoposti di persona all'esperimento, osservando delle fotografie scelte a caso da un gruppo di 120 immagini già note (la cui corrispondenza con i processi neurali era stata preventivamente registrata nelle fasi preliminari del test), mentre la loro attività cerebrale veniva monitorata attraverso risonanza magnetica funzionale (fMri). I risultati della fMri, confrontati con le registrazioni preliminari dell'attività neuronale, hanno dato esito positivo in un numero troppo alto di occasioni per essere riconducibile al puro caso, mettendo comunque in luce un progressivo deterioramento dell'affidabilità all'aumentare del numero delle immagini e delle possibili somiglianze tra immagini diverse.
"I nostri risultati suggeriscono che è possibile ricostruire l'immagine dell'esperienza visuale di un uomo misurando la sua attività cerebrale" ha dichiarato Gallant. "Ciò schiude enormi possibilità, presto potremo avere una macchina capace di ricostruire in qualsiasi momento un'immagine dal cervello umano". Su un totale di 120 immagini, la predizione è giusta nove volte su dieci. Su 1000 immagini, è giusta otto volte su dieci. Gli scienziati di Berkeley calcolano che su un miliardo di immagini, la predizione sarebbe esatta nel venti per cento dei casi. E così questo potrebbe essere solo l'inizio. Tenendo conto del fatto che lo scanner impiegato per il test poteva scattare al massimo tre o quattro immagini al secondo, strumenti più complessi potrebbero riuscire ad aumentare l'affidabilità del riconoscimento, discriminando in un set più ampio di immagini. E Gallant non esclude che potremo arrivare prima o poi a "leggere i sogni", oppure a recuperare frammenti di memoria rimasti impressi nel cervello malgrado l'individuo ne abbia perso la consapevolezza.
Agli studi dei neurologi di Berkeley si sono aggiunti negli ultimi giorni i risultati di un altro team statunitense, coordinato da Tim Mitchell della Carnegie Mellon University di Pittsburgh. Secondo Science, che ne dà notizia, questa equipe congiunta di neuroscienziati ed esperti informatici è riuscita in un risultato analogo a quello di Gallant, avvalendosi della fMri stavolta per decodificare una parte del codice linguistico del cervello. Gli scienziati della Carnegie hanno così individuato i circuiti neurali che si attivano nel momento in cui si pensa a determinate parole collegate ad oggetti concreti (come un fiore, una pistola, oppure un diario). La scansione mediante risonanza magnetica funzionale ha permesso di osservare diverse combinazioni di attività neurali, ciascuna associata ad una parola. Partendo da queste associazioni e utilizzando calcoli statistici, gli scienziati sono riusciti a delineare un vero e proprio codice di migliaia di parole, composto dalla decodificazione di quelli che potrebbero definirsi "crittogrammi neurali" o "psicogrammi".
"Crediamo di aver identificato un certo numero di unità di codice di base che il cervello usa per rappresentare il significato di alcune parole", ha spiegato Mitchell. Dal vocabolario restano per ora esclusi i nomi astratti, per i quali non sono stati ancora individuati i relativi circuiti neurali, ma le prospettive sono comunque promettenti. Le applicazioni andrebbero ben oltre la "semplice" lettura del pensiero altrui, spingendosi fino alla migliore comprensione di malattie come l'autismo e di disturbi del pensiero come la paranoia, la schizofrenia e la demenza semantica. "La prospettiva è quella di riuscire a determinare come i soggetti autistici rappresentano, dal punto di vista neurale, concetti sociali quali l'amicizia e la felicità", ha dichiarato Marcel Just, un altro autore dello studio, alla direzione del Center for Cognitive Brain Imaging della Carnegie.
I giorni della Sezione Pi-Quadro potrebbero davvero non essere poi così lontani...
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