Questo strano rapporto con la corporeità lo ritroviamo anche in un altra “cantonata” della fantascienza, più recente, quella riguardante la realtà virtuale. Che inevitabilmente la fantascienza ha corredato di tute sensorie o altri meccanismi per permettere all’utente di trasferirsi in modo completo nel metaverso, come se l’esperienza dovesse essere il più possibile reale per avere senso. Quando la realtà virtuale è arrivata, ci si è accorti che non solo non era affatto necessario questo tipo di interazione, ma non era neppure gradito. L’utente di Second Life non ha nessuna difficoltà a immedesimarsi in un avatar che non è altro che un personaggio su uno schermo banalmente bidimensionale. Anzi: quando la Linden Lab ha introdotto il voice, ovvero la possibilità di usare la voce per comunicare al posto della tastiera, molti utenti non l’hanno affatto gradita, considerandola un passo indietro nella separazione tra persona reale e avatar. Separazione vissuta come un fatto positivo, non negativo, al punto che gli utenti più immersi identificano sé stessi nell’avatar e chiamano l’essere umano che lo manovra col termine dispregiativo di picchiatasti.
Questo non ha impedito comunque qualche geniale intuizione, come la straordinaria anticipazione del concetto di singolarità che si trova nel racconto di Fredric Brown del 1959 — sei anni prima della Legge di Moore — La risposta. I computer di tutta la galassia vengono collegati in rete e lo scienziato pone la prima domanda: dio esiste? il computer risponde “adesso sì”. E in fondo lo stesso mondo virtuale per eccellenza, Second Life, è nato su ispirazione dichiarata dal metaverso di Snow Crash di Neil Stephenson.
Un altro aspetto che la fantascienza non ha intravvisto se non quando era troppo tardi è stato il rifiuto del progresso scientifico in certi ambiti, l’avvento degli sbarramenti etici. In realtà non sono pochi gli esempi (Vittorio li conoscerà tutti a memoria, a me mentre scrivo viene in mente solo L’undicesimo comandamento) di futuri immaginati dalla sf nei quali la scienza è diventata tabù, la tecnologia rifiutata, in genere in seguito alla distruzione della civiltà dopo una guerra nucleare.
Per gli autori di fantascienza è sempre stato assolutamente normale immaginare l’uso della bioingegneria o della clonazione: non di rado le storie che si occupavano di questi argomenti erano addirittura leggere, descrivevano i problemi pratici dell’uomo che clona la ragazza del suo migliore amico per poterla avere per sé, scoprendo invece che anche il clone è innamorato del suo amico; situazioni da commedia brillante, non certo da mostruosità contraria a tutte le leggi dell’etica e di dio come è stata accolta la clonazione quando dalle pagine della fantascienza è passata alle pagine dei giornali di cronaca.
Certo nei paesi patria della fantascienza, Stati Uniti e Regno Unito, questa tendenza è molto meno evidente di quanto non lo sia in questa Italia dove ormai il parlamento è un’emanazione della Conferenza episcopale.
Come dicevo all’inizio di carrellata, però, lo scopo della fantascienza non è prevedere il futuro, quindi pazienza per le previsioni mancate. Ma in quest’epoca dalle prospettive così incerte e dai segnali così contraddittori, cosa ha da dire la fantascienza? Meno di quanto dovrebbe, a quanto pare, invischiata com’è in un mercato editoriale che privilegia la quantità alla qualità, la massa all’idea. Soprattutto quando si guarda agli Stati Uniti, dove il panorama è davvero desolante, un paese nel quale gli scrittori di fantascienza sfogano sui blog tutte le loro opinioni politiche e poi scrivono romanzi di fantascienza massificati che, mi raccomando, urtino meno possibile la correttezza patriottica.
Forse mai come oggi ci sarebbe bisogno della voce della fantascienza, una voce che ci aiuti a capire, che ci dia degli spunti, che ci tiri fuori quel tanto che basta dal quotidiano per avere una visione d’insieme.
Almeno per vivere meglio quegli ormai pochi anni che ci separano dal momento in cui qualcuno farà la domanda e il computer risponderà “adesso sì”.
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