C’è ben poco da meravigliarsi riguardo il fatto che Hollywood non abbia ancora saputo sfruttare adeguatamente l’inesauribile vena creativa dell’indiscusso maestro della fantascienza, Isaac Asimov. Nonostante questo genere sia oggi più che mai una miniera d’oro per il cinema, sembra che esista quasi una sorta di sacro timore ad avvicinarsi alle opere asimoviane per trasporle sul grande schermo. Ma non c’è da meravigliarsi innanzitutto perché in queste opere manca pressoché sempre un elemento quasi indispensabile per la fantascienza cinematografica, cioè l’alieno; in secondo luogo perché le storie più famose – in primis quelle della Fondazione - sono “infilmabili” per definizione a causa della notoria verbosità (in senso positivo) dello stile di Asimov, restio a scene d’azione e intrecci adrenalinici; e infine perché, anche le opere che più si prestano a un’operazione di quel genere, come ad esempio Abissi d’acciaio o La fine dell’Eternità, necessitano di un tale livello di impegno nella realizzazione di effetti e scenografie da far preferire ai produttori qualcosa di più semplice.
Due tentativi, ciò nonostante, sono stati fatti ed entrambi hanno avuto per oggetto la creatura più riuscita di Asimov, il robot positronico. Il primo è stato L’uomo bicentenario tratto da uno dei più bei racconti sul tema (1976) e diretto da Chris Columbus nel 1999 con Robin Williams nei panni di Andrew Martin, il robot che vuole essere uomo. Il secondo è invece qualcosa di molto più complicato in quanto tenta di sfruttare tutta una serie di tematiche affrontate da Asimov sul rapporto tra uomini e robot nel corso dei numerosi racconti utilizzando una trama da action-movie alla moda: il titolo, Io robot (2005), avrà tratto in inganno più di un lettore di Asimov convinto di godersi qualcosa di vagamente attinente all’antologia di racconti omonima (come del resto attinente, pur tra i suoi diversi difetti, era il film di Columbus). Il regista Alex Proyas non ha voluto sentir parlare di utilizzare una nota sceneggiatura che ai suoi tempi lo scrittore Harlan Ellison trasse, col beneplacito di Asimov, dalla raccolta di racconti sui robot e si è limitato a estrarre dalla discarica dei soggetti abbandonati un plot di qualche anno prima a cui ha aggiunto giusto qualche nome coperto dal copyright di Asimov come quello della dottoressa Susan Calvin, la superba robopsicologa dei racconti sui robot qui ridotta ad anonima spalla, e del dottor Alfred Lanning, suo superiore e in questo film ignara vittima delle proprie creature, i robot appunto.
Io robot di Proyas affida all’attore-cult Will Smith il compito di impersonare un detective col complesso dei robot, un personaggio che Asimov aveva già creato a suo tempo e usato come protagonista di una fortunata serie di quattro romanzi iniziati col già citato Abissi d’acciaio. Ma di Elijah Baley – questo il nome del personaggio asimoviano – il detective Spooner di Chicago non ha proprio niente a parte la fissazione per i robot. E anche quest’ultima non deriva dal disagio sociale per la possibilità di perdere il lavoro rimpiazzato da un androide, ma dal solito complesso del passato aggiunto per dare spessore a un personaggio che non ne ha bisogno (non perché ce l’abbia già, ma perché Will Smith si salva solo quando si mantiene sui livelli da commedia americana). Per il resto può essere interessante, per quanti abbiano la pazienza di ricercare un collegamento tra il film e l’antologia, vedere quali dei racconti di Asimov siano stati usati per il soggetto di Proyas. Su questo punto infatti continua a non esserci unanimità. Il dizionario del cinema curato dal critico Paolo Mereghetti cita ad esempio Iniziativa personale (1944) con protagonisti i roboticisti Donovan e Powell.
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