A dispetto della scarsa performance ai botteghini, il film riuscì presto a imporre una estetica sporca, debitrice di tanti più o meno illustri modelli reinterpretati da Scott e da Mead: dai quadri iperrealisti di Edward Hopper (Scott avrebbe dichiarato di essersi ispirato all’atmosfera notturna e malinconica di un suo celebre dipinto, “Nighthawks”) all’estetica di riviste a fumetti come la francese Métal Hurlant (molti sono infatti gli omaggi, soprattutto al noir fantascientifico The Long Tomorrow sceneggiato da Dan O’Bannon – vecchia conoscenza di Scott dai tempi di Alien, 1979 – e disegnato da Moebius), dall’atmosfera dei film noir degli anni Trenta e Quaranta al clima distopico e straniante, quasi sospeso fuori dal tempo, che con i segni inconfondibili del predominio commerciale giapponese pare quasi attingere a un altro capolavoro dickiano, The Man in the High Castle (1962).
A proposito di relazioni intertestuali, nel passaggio dalla carta alla pellicola molte delle più geniali folgorazioni di Dick sono andate perdute. Il kipple, la piaga sovrannaturale che minaccia di disgregare ogni cosa e assimilare tutto ciò che non serve più al naturale ciclo della vita nel suo corpo, mutante eppure cristallizzato nella stasi della morte; e il Mercerismo (o Mercerianesimo), la religione del futuro che obbliga i suoi seguaci a sperimentare nella condivisione dell’esperienza, in una sorta di realtà virtuale, il supplizio del profeta (o presunto tale) per avvicinarsi, se non alla comprensione, almeno all’accettazione della realtà (e cos’è, dopotutto, un atto di fede?). Perduti, è vero, ma non del tutto. Entrambi gli elementi rivivono infatti sotto altre spoglie, il kipple trasfigurato nella minaccia del collasso ambientale, la religione nei frequenti richiami del film a una simbologia di chiara matrice cristiana.
Condensato di angosce, timori e preoccupazioni, Blade Runner si sarebbe imposto come un autentico modello, segnando l’esordio del proficuo rapporto postumo tra l’industria cinematografica e il defunto P.K. Dick. Alla sua riuscita avrebbe fatto gioco anche la scelta di un titolo che nella sua maggiore immediatezza non tradisce l’essenza criptica (forse anche ludica) del romanzo: dopo essere passati attraverso un’escalation di titoli di lavorazione (Android, Mechanismo, Dangerous Days), alla fine Fancher pescò da un vecchio racconto, quasi sconosciuto, di William Burroughs, oracolo beatnik e nume protettore dei cyberpunk, che fu felice di contribuire con il titolo a quello che già andava profilandosi come un lavoro assolutamente unico nel suo genere. Blade Runner si attaglia alla perfezione alla figura malinconica e disillusa dell’ex-poliziotto, un po’ investigatore privato alla Marlowe e un po’ bounty killer, cacciatore di taglie in precario equilibrio sul filo della lama e destinato, per uno di quegli scherzi beffardi del destino che tanto piacevano a Dick, a trasformarsi a sua volta in preda della caccia.
La confusione dei ruoli riflette l’illusione della realtà che ossessionava l’autore californiano. Il film pone, tra gli altri, un interrogativo angosciante: se non ci si può appellare nemmeno più alla memoria come elemento discriminante, quanto a lungo si può conservare la propria umanità cercando di contrastare la crescente invadenza delle copie sintetiche? Fino a che punto si può mantenere nitida la distinzione, se gli uomini si sforzano di annientare qualsiasi manifestazione di quegli slanci così umani espressi dai loro replicanti, tradendo quella stessa empatia che dovrebbe servire a discriminarli da loro? Il confine (l’interfaccia) è diventato arbitrario. La degenerazione dei rapporti si spinge fino alla drammatica inversione finale, quando Roy Batty, al termine di una caccia che lo ha visto prima preda e quindi predatore, di fronte a un Deckard inerme e ormai spacciato, lo strappa alla morsa della gravità e gli consegna – in un’allegoria cristologica nemmeno troppo mascherata – il nuovo verbo: la versione del replicante, angelo caduto, divinità negletta eppure protagonista di un piccolo riscatto privato contro le forze schiaccianti di un sistema che gli impedisce di essere fino in fondo artefice del proprio destino.
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