E’ uscito per i tipi della Minimum Fax il romanzo La regina degli scacchi (The Queen’s Gambit, 1983), un romanzo mainstream di Walter Stone Tevis (1928-1984), il noto autore di L’uomo che cadde sulla Terra. A parte i suoi quattro libri di science fiction (dei quali uno raccoglie le sue storie brevi), Tevis ha al suo attivo altri due romanzi: Lo spaccone (1959, ambientato nel mondo delle gare di biliardo e da cui Robert Rossen nel 1961 trasse un famoso film con Paul Newman), nonché il suo seguito, Il colore dei soldi (1984), scritto poco prima che l’autore morisse e portato sullo schermo da Martin Scorsese nel 1989, sempre con Newman.
Con La regina degli scacchi Tevis ci trasporta, comunque, in un universo alternativo: quello del cosiddetto Nobil Gioco e dei relativi tornei locali, nazionali e internazionali. E’ evidente che lo scrittore conoscesse bene il gioco e il relativo ambiente, ma soprattutto conosceva la psicologia di chi manovra con assiduità re, alfieri, torri e così via; come pure il “senso” del gioco degli scacchi. Il risultato è un romanzo davvero “ipnotico” – come il gioco stesso – che nonostante le sue quasi quattrocento pagine si è “costretti” a leggere d’un fiato.
La psicologia del giocatore di scacchi (non solo a livello professionistico) è presto detta: esiste un solo vero mondo ed è quello delle 64 caselle e dei 32 pezzi. Questa “visione” tuttavia semplifica molto, perché nella realtà esistono sfaccettature, che possono comunque raggiungere l’ossessione. Sono stati scritti molti racconti e romanzi sulle vite di giocatori veri o immaginari (ma verosimili), anche per mano di grandissimi autori: citerò, per tutti, La difesa (noto anche come La difesa di Lužin) di Vladimir Nabokov, scacchista egli stesso. Come pure esistono testi di saggistica sulla psicologia del giocatore di scacchi (famoso, almeno nell’ambiente, quello dello psicanalista Reuben Fine, a sua volta notevole scacchista).
Quanto al “senso” del gioco, cui si accennava, il discorso è altrettanto vasto ma forse più variegato e – occorre dire – anche attinente alla fantascienza. Il fatto che vi siano sulla scacchiera pezzi (re, regine, alfieri, pedoni etc.) manovrati da qualcuno, e che essi divengano oggetto di complesse interazioni reciproche, esaltanti o catastrofiche, concretizza un’allegoria troppo fascinosa per non assimilarla ai destini e al libero arbitrio umani.
Sono state scritte decine di storie fantascientifiche che “giocano” con i significati degli scacchi e dei relativi “manovratori”. Anche qui citerò – per tutti – solo un testo: il romanzo La scacchiera (The Squares Of The City, 1965), stupefacente tour de force di John Brunner.
Tornando a Tevis, diremo che il suo libro narra comunque una storia insolita, perché è la biografia dei primi vent’anni di colei che si rivela una grandissima giocatrice. Insolita perché da sempre o quasi (nel Medioevo non era così) l’universo concentrazionario degli scacchi è stato ritenuto precluso al genio femminile. Gli scacchi hanno bisogno di intuito e “le donne ne sono prive”, ci è stato sempre detto. Una balla immane, ovviamente, come ogni altro penoso luogo comune del tipo. Eppure esistono tuttora i campionati femminili, tenuti ben separati da quelli maschili. Mentre abbiamo esempi di donne che hanno raggiunto vette anche mondiali della competizione scacchistica (citerò un altro esempio: le ungheresi sorelle Polgar), e se si tratta di casi rari la spiegazione non è certo in una minore capacità intuitiva.
L’eroina di Tevis si chiama Beth Harmon e la seguiamo dall’età di otto anni, dacché si trova relegata in un orfanatrofio degli Usa. Presto Beth rifiuta il mondo repressivo e miope che le ruota intorno e la incatena. Diventa una disadattata, ma trova la forza di continuare a vivere grazie al custode dell’orfanatrofio, lo scontroso e taciturno signor Shaibel, che le insegna il gioco. In poco tempo Beth vincerà tutte le partite col suo occasionale maestro e passerà le notti a ripassarsi mentalmente, a memoria, le mosse fatte e altre che avrebbe potuto fare. Shaibel, accortosi delle doti della piccola, la segnalerà al circolo scacchistico locale. Da cosa nascerà cosa. Ma Beth dovrà fare i conti con “le pillole”, i tranquillanti che l’accompagneranno sempre in dosi massicce, sia pure a fasi alterne, alle quali si aggiungerà in seguito l’alcol. Tuttavia a noi, al lettore, interessano la ferrea e abbagliante determinazione – che sfiora appunto l’ossessione – della piccola Beth per il gioco, ciò che comunque non le farà perdere di vista il mondo esterno. Uscirà dall’ambiente claustrofobico dell’orfanatrofio ma resterà, connivente, in quello degli scacchi. Un ambito che comunque le comunica forti emozioni e fa da contraltare a frustrazioni e ferite. Perché il gioco degli scacchi può diventare grandioso, unico, totalizzante, immenso; elargire soddisfazioni intellettive che fanno toccare il cielo, come anche caricare di risentimento e odio feroce per un avversario che vorresti veder morto: chi ha detto che gli scacchi siano un passatempo tranquillo, magari noioso? Sono qualcosa di magmatico, esaltante, furibondo, di estrema violenza (psicologica) come forse nessun altro gioco al mondo. Davvero un’allegoria della vita, anzi di più, perché pescano nelle profondità del giocatore, sollecitando e portando a galla le reazioni più meschine ma anche le più nobili. Gli scacchi sono un mosaico di magneti, sono come campi di forza nello spazio interstellare: “Beth decise di non prendere il pedone che le veniva offerto dal signor Shaibel. Era il Gambetto di Donna. Lo volle lasciare lì sulla scacchiera. Le piaceva che fosse così. Le piaceva il potere dei pezzi, esercitato lungo file e diagonali. A metà del gioco, quando i pezzi erano sparsi dappertutto, le forze che attraversavano la scacchiera le davano i brividi. Portò avanti il cavallo del re, sentendone diffondersi la potenza”. Oppure: “…alla trentacinquesima mossa la torre bianca piombò in b7 in maniera così sorprendente che Beth seduta al suo banco per poco non gridò”.
Tevis ci fa vivere, delle innumerevoli partite giocate da Beth, soprattutto questo aspetto “biologico”, quasi animalesco, insaziabile, che necessita come una droga di ulteriori emozioni e conferme. Certamente, avendo dinanzi una scacchiera oltre che la pagina, il lettore già familiarizzato con i pezzi seguirà più minutamente gli eventi, apprezzerà ulteriori sottigliezze: ma non è questo lo spirito dell’opera. Essa è, volutamente, fruibile anche da chi poco o nulla sappia di queste cose. Tanto vero che, delle partite, Tevis solitamente accenna a dettagli sparsi, difficilmente ricostruibili dal vero, tranne che per gli incontri più determinanti nell’ascesa della protagonista. Allo scrittore preme comunicare la tensione d’una vita vissuta con un’idea fissa che sa offrire gratificazioni immense, andare al di là del gioco in sé, farsi quasi immagine d’una trascendenza irresistibile ma anche spalancare abissi senza fondo, rendendo la vita del giocatore professionista un perpetuo viaggio sulle montagne russe. Un’idea fissa che sa offrire anche – qui interviene di certo un elemento autobiografico – la forza per uscire dall’alcolismo. Splendida l’ultima parte del romanzo, ambientata in una Russia sovietica chruscioviana dove gli scacchi – tradizionalmente gioco nazionale, quasi sacro – sono praticati con entusiasmo da tutti; vecchi pensionati dilettanti giocano nei giardini della capitale a un notevolissimo livello di bravura; ai tornei assistono persone a migliaia; i campionati mettono in fermento l’intera Unione Sovietica e i Grandi Maestri, popolarissimi, sono icone irraggiungibili e praticamente imbattibili a livello mondiale. La figura di Beth è perfettamente delineata: testarda, capricciosa, tormentata, allo sbando, un po’ antisociale, talora anaffettiva, in un controverso rapporto col sesso, ella saprà vincere se stessa oltre che la battaglia conclusiva. Saprà anche rifiutare i 4000 preziosissimi dollari offertile da un’organizzazione cattolica fondamentalista, che vorrebbe sponsorizzare il suo viaggio nell’Urss al suono dei propri slogan contro “la rete ateo-comunista” e a favore di “un Impegno Cristiano militante”. E stavolta la IV di copertina non esagera: "La regina degli scacchi è l’ultimo capolavoro di uno scrittore che è riuscito a narrare come pochi altri l’alienazione, la speranza, il riscatto”. E anche la “diversità”: com’è nelle corde di Tevis. Completano il volume una prefazione di Tommaso Pincio (La ragazza che non poteva essere donna), un esteso profilo biografico dell’autore, la sua bibliografia, l’articolo Gli scacchi, le donne, il mondo dello scacchista ed editore Yuri Garrett. Volume di pagg. 376, euro 11,50.
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